Nel corso della sua continuativa evoluzione, il medium videoludico ha evidenziato la sua propensione all’intermedialità grazie a rapporti testuali (e non solo) sempre più emblematici con altri media: come afferma Bittanti all’interno dell’introduzione di un volume collettaneo dedicato principalmente ma non esclusivamente alle molteplici relazioni semantiche tra il medium videoludico e quello cinematografico, i videogiochi possono infatti accorpare “codici linguistici di espressioni mediali e artistiche – dalla letteratura alla musica, dal cinema alla televisione, dal fumetto al teatro – senza tuttavia indentificarsi con nessuno di questi in particolare.” (Bittanti 2008a, p. 7).

Gli studi sui contatti testuali sussistenti tra i videogiochi e gli altri settori d’intrattenimento hanno rappresentato (e continuano a rappresentare) un asse di ricerca molto importante nei game studies nazionali e internazionali, sia per quanto concerne i rapporti tra videogiochi e cinema (Bittanti 2008b; Giannone, Romanini 2012; Papale 2013; Papazian, Sommers 2013; Fassone 2017), così come per quanto concerne i rapporti tra videogiochi e televisione, o più precisamente serialità televisiva, che ho avuto modo di approfondire personalmente nella mia Tesi di Dottorato convogliata in una recente monografia (Genovesi 2020).

I continui incontri diretti e/o indiretti tra il medium videoludico con altri media sottoscrivono la potenziale natura polimorfa di certi videogiochi, che possono così innalzare le loro potenzialità espressive anche grazie a influssi estetici e rappresentativi provenienti da altri settori d’intrattenimento.
L’attuale propensione all’intermedialità dei videogiochi contemporanei affonda le radici in un lunghissimo percorso storico iniziato nei primi anni Ottanta, quando il medium era ancora giovanissimo e in alcuni casi cercava di adattare in un contesto videoludico alcune vicende nate nel mondo del cinema, per poi affiancare anche l’adattamento di racconti seriali, fino ad arrivare ai giorni nostri¹. A differenza dei videogiochi che si arricchiscono implicitamente grazie agli influssi intermediali senza emblematiche relazioni con prodotti nati in altri settori, oppure a differenza di quei videogiochi che vengono narrativamente contestualizzati in dei franchise preesistenti diventando parte di un racconto transmediale², spesso il rilascio parallelo di un film/serial con il suo adattamento videoludico su licenza è stato poco fortunato.
Come infatti argomenta Elkington (2009), gli adattamenti videoludici paralleli all’uscita del film/serial da cui sono tratti possono incontrare variegate problematiche inerenti alla ricezione del pubblico e alla produzione. L’autore evidenzia che i videogiochi su licenza hanno sempre avuto l’arduo compito di soddisfare due gruppi di utenti: da un lato, gli appassionati del film/serial originale, che si aspettano una certa fedeltà ai dettagli e magari sperano di scoprire qualche retroscena interessante; dall’altro lato, gli appassionati videoludici in toto, che si aspettano un titolo ludicamente e narrativamente appagante. Inoltre, Elkington sottoscrive che l’esigenza dei videogiochi su licenza di aderire il più possibile a certi canoni narrativi stabiliti su altri media può portare gli sviluppatori a incorrere in variegati intoppi nello sviluppo: dal bisogno di accelerare i tempi per rilasciare in concomitanza il videogioco con il film/serial di riferimento, fino alla necessità di modificare radicalmente intere porzioni già sviluppate a seguito di cambiamenti nella sceneggiatura cinematografica/seriale, senza contare che gli sviluppatori in tali circostanze non sono realmente liberi di sfoggiare il loro estro creativo, dovendo necessariamente rispettare determinati canoni a monte. Ne consegue che, nel corso degli anni, l’adattamento videoludico su licenza è diventato a suo malgrado sinonimo di “qualità” discutibile.
Le virgolette non sono casuali visto che ritengo il termine ben più sfuggente di quanto non sembri, e nonostante l’esistenza di parametri più o meno standardizzati con cui valutare determinate produzioni intellettuali, spesso l’interiorità di chi ne fruisce può avere un ruolo implicitamente preponderante. Del resto, non bisogna mai dimenticarsi che dietro a un giocatore, a un critico, o a un ricercatore, c’è sempre una persona con gusti, passioni e preferenze. Ed è proprio la persona che risponde al nome di Matteo Genovesi, memore di un’infanzia segnata dalla passione (mai del tutto assopita) per le arti marziali, ad avermi messo di fronte a Cobra Kai: The Karate Kid Saga Continues (Flux Games, 2021), adattamento videoludico su licenza del serial Cobra Kai (YouTube Premium stagioni 1-2, Netflix stagione 3-in corso), che prosegue a sua volta le vicende nate negli anni Ottanta con la saga cinematografica di Karate Kid (1984-1994).
Il videogioco in questione ha ottenuto un discreto riscontro da parte della critica, stesso dicasi del pubblico: a prescindere dal contenuto entusiasmo con cui è stato accolto, questo titolo è comunque un meritevole esempio utile per evidenziare un’interessante direttiva di adattamento, che verrà esposta nel paragrafo successivo.

 

¹ Per approfondimenti, mi permetto di rimandare ancora alla mia monografia (Genovesi, 2020), in cui il rapporto tra i videogiochi e gli altri media (tra cui il cinema, ma anche e soprattutto la serialità televisiva) viene approfondito nel corso dei vari decenni. 
² Una narrazione transmediale si articola in molteplici porzioni narrative convergenti che vengono sistematicamente distribuite su più settori d’intrattenimento differenti. Questo complesso processo di costruzione narrativa è stato indagato in tantissimi contributi accademici nazionali e internazionali, come per esempio (tra i tanti altri) in Jenkins (2006); Scolari (2009); Evans (2011); Giovagnoli (2013); Ryan (2015); Pescatore (2018).

Come già anticipato, il serial Cobra Kai, attualmente composto da tre stagioni, prosegue le vicende in precedenza narrate nella celebre saga cinematografica di Karate Kid.
La saga prodotta principalmente negli anni Ottanta si focalizza sulla crescita di Daniel La Russo (Ralph Macchio), un giovane dall’esistenza tormentata da vari burberi individui, che scopre nel Karate non solo una via per uscire dalle vessazioni, ma anche e soprattutto una via per raggiungere un profondo equilibrio interiore sotto il costante sostegno del suo maestro di vita, il signor Miyagi (Pat Morita). Il primo tra i vari individui con cui Daniel deve scontrarsi per difendere sé stesso e chi gli sta a cuore è Johnny Lawrence (William Zabka), un ragazzo a capo di un gruppo di motociclisti praticanti di Karate e allenati dal severissimo John Kreese (Martin Kove), proprietario di un dojo battezzato come Cobra Kai, che si basa su dei principi che non includono la profondità intellettuale alla base del Karate. Daniel e Johnny, rivali in amore, si allenano seguendo direttive radicalmente differenti all’interno della medesima dottrina, e arrivano a scontrarsi nella finale del torneo di All Valley, in cui il ragazzo allenato da Miyagi ha la meglio.

Il serial Cobra Kai inizia con un flashback di Johnny che, trent’anni dopo, rivive come un’ossessione gli ultimi istanti del combattimento. L’uomo, ormai cinquantenne, decide così di riaprire il dojo del suo vecchio maestro Kreese per cercare una rivincita contro un Daniel che, ormai sposato e divenuto padre, porta avanti un familiare dojo in onore del suo defunto maestro Miyagi, chiamandolo per l’appunto Miyagi Do. Riassumere o anche solo sintetizzare gli innumerevoli eventi che si susseguono nelle tre stagioni finora rilasciate richiederebbe un corposo spazio a parte, ragion per cui mi limiterò a scrivere che l’intero organigramma narrativo alla base del serial si focalizza alternativamente su Daniel e Johnny, così come sulle persone a loro più care e sulle direttive morali che guidano i principi cardinali del Cobra Kai e del Miyagi Do, sottolineando in varie circostante che il confine tra bene e male è molto labile.
Ed è qui che entra letteralmente in gioco il titolo realizzato da Flux Games, un team che si approccia all’adattamento seguendo una direttiva fondamentale: l’omaggio. Cobra Kai: The Karate Kid Saga Continues, infatti, preleva i medesimi personaggi dell’omonima serie mantenendone la loro genealogia, ma costruisce un autonomo orizzonte narrativo omaggiando la mitologia alla base dell’universo di finzione tramite soluzioni ludiche ed estetiche.

Il videogioco inizia con una breve cut-scene in cui due volti noti del serial, ovvero Eli “Hawk” (Jacob Bertrand) e Demetri (Gianni Decenzo), litigano nella stanza del Preside all’interno della scuola superiore di West Valley: l’uomo cerca di mantenere la calma, e vuole una spiegazione a tutti gli eventi surreali di cui ha sentito parlare, come risse a base di pugni infuocati e calci congelanti. Così, Eli e Demetri iniziano a raccontare una loro personale versione dei fatti: l’utente ha la possibilità di scegliere se sentire il racconto di Demetri, schierandosi dalla parte del Miyagi Do, oppure ascoltare la versione di Eli, schierandosi invece dalla parte del Cobra Kai³. I due dojo sono differenziati per vari attributi inerenti allo stile di combattimento, che vengono evidenziati fin dalla schermata di selezione iniziale: da un lato il Cobra Kai è più propenso a dinamiche ludiche che incentivano l’attacco, mentre dall’altro lato il Miyagi Do è più propenso a dinamiche ludiche incentrate sulla difesa. La propensione offensiva del Cobra Kai e difensiva del Miyagi Do è ulteriormente confermata dalle abilità imparabili nel corso della progressione con i personaggi appartenenti ai due diversi gruppi.
Già a partire da queste basi, il titolo evidenzia di voler recuperare, da un punto di vista ludico, le filosofie alla base dei due dojo contrapposti nella saga e nel serial, che vedono nel Karate una disciplina approcciabile con due direttive nettamente differenti: “colpire per primi, colpire forti, senza pietà” secondo il Cobra Kai, e “il Karate serve solo per difendersi” secondo il Miyagi Do. Come già anticipato, se la saga cinematografica si focalizza maggiormente sui benefici interiori derivanti dall’approccio più riflessivo al Karate secondo la visione del maestro Miyagi, evidenziando il lato oscuro del Cobra Kai, il serial adotta invece un approccio diverso, mostrando per la prima volta che anche il Cobra Kai, dietro al suo velo di brutalità, cerca di stimolare il lato combattivo insito in ogni persona per portarla ad affrontare ogni avversità quotidiana con rinnovato vigore.
Nonostante la nuova contestualizzazione del Cobra Kai, la rivalità tra i due dojo affonda le radici nella saga cinematografica prodotta negli anni Ottanta, e il videogioco sceglie di basarsi ludicamente su un genere fortemente in voga in quel periodo storico: il picchiaduro a scorrimento bidimensionale tanto adorato da Santos (2020), direttore creativo e produttore esecutivo del titolo. Cobra Kai: The Karate Kid Saga Continues si articola infatti lungo vari livelli colmi di nemici da affrontare utilizzando Daniel, sua figlia Samantha e altri personaggi affini al Miyagi Do se inizialmente viene selezionato il racconto di Demetri; se viene scelto il racconto di Eli, invece, gli stessi eventi verranno affrontati da Johnny e alcuni suoi allievi del Cobra Kai. In entrambi i casi, l’utente assiste a due versioni differenti di una medesima vicenda, che vede il Miyagi Do o il Cobra Kai alle prese con l’attraversamento di numerose zone in città con l’obiettivo di fermare l’espansione del dojo rivale, fino a scontrarsi con i membri più forti dell’altro gruppo alla fine di ogni livello.
Come da tradizione per il genere videoludico di appartenenza, il cammino dei vari personaggi è ostacolato da moltissimi nemici, in tal caso non riconducibili direttamente alla saga o al serial: il titolo di Flux Games, infatti, si basa su una premessa narrativa differente rispetto a quanto visto nella declinazione cinematografica o seriale del franchise, ovvero sul personale racconto di due adolescenti dalla spiccata fantasia, giustificando la presenza di numerosi avversari all’interno di un organigramma ludico basato sull’omaggio al periodo storico che ha segnato la nascita del franchise stesso. Ne consegue che il titolo non ha alcuna pretesa di restare narrativamente fedele a quanto proiettato al cinema o trasmesso in streaming, bensì di utilizzare parte di quel materiale per costruire due versioni di un’autonoma vicenda in cui permangono solo i personaggi principali con i loro personali valori morali e quelli per il dojo per cui combattono.
I combattimenti enfatizzano ancor di più la separazione prettamente narrativa dalle precedenti declinazioni cinematografiche e seriali, in quanto si basano sull’utilizzo di variegati poteri di fuoco per il Cobra Kai e di ghiaccio per il Miyagi Do, poteri che hanno relazioni sancite ancora una volta dall’omaggio al passato: fuoco e ghiaccio sono infatti due elementi alla base dei poteri utilizzati spesso da alcuni importanti personaggi che hanno sancito il culto del genere picchiaduro, anche non necessariamente a scorrimento, e vengono in tal caso contestualizzati anche grazie all’omaggio verso specifici momenti della saga e del serial. Il ghiaccio diviene così un riferimento simbolico a una storica scena di Karate Kid 2, in cui Daniel riesce a rompere 6 lastre di ghiaccio con un solo colpo, mentre il fuoco diviene il contrapposto elemento simbolico del Cobra Kai, volenteroso di far fuoriuscire l’ardore combattivo insito in ogni persona e sciogliere una volta per tutte gli insegnamenti (a loro parere inutili) di Daniel.

Se, da un lato, il titolo mantiene una costante predilezione al passato da un punto di vista prettamente ludico, dall’altro lato propone un mix di contemporaneità e passato con la sua matrice audiovisiva. Esteticamente si basa infatti sullo stile del cel-shading, che è stato utilizzato in varie circostanze nel medium videoludico a partire dalla generazione degli anni Zero, mentre sonoramente utilizza una playlist di temi musicali contestualizzati: come illustrano i compositori Birenberg e Robinson (2020), la loro ispirazione nasce da un mix tra le colonne sonore originali di Bill Conti per la saga e i ritmi intensi degli accompagnamenti musicali di vari picchiaduro a scorrimento negli anni Ottanta, per poi far confluire tale mix con le atmosfere caratterizzanti i due dojo; ne consegue che il percorso con i personaggi del Cobra Kai viene in varie circostanze accompagnato dal suono di una chitarra elettrica, mentre i personaggi del Miyagi Do si muovono in vari casi sotto un assortimento di suoni remixati provenienti da flauti, campane e strumenti a corda.

 

³ Quando il giocatore porta a termine uno dei due racconti, il titolo spinge a giocare l’altra versione con la promessa che la verità potrà essere scoperta solo una volta completati i due archi narrativi. 

Grazie alla sua indipendenza narrativa, il team di Flux Games ha lavorato con relativa (ma tangibile) indipendenza per realizzare Cobra Kai: the Karate Kid Saga Continues, che diventa un titolo potenzialmente interessante sia per i fan della saga cinematografica così come per i fan del serial: tutti gli appassionati, infatti, hanno la possibilità di riconoscere i personaggi cardinali e i principi che li guidano all’interno di due nuovi orizzonti narrativi soggiacenti alla fantasia dei due adolescenti protagonisti del titolo. Tale fantasia porta i personaggi a scontrarsi con poteri sovrannaturali in una serie di scenari con dinamiche ludiche attinenti ad un genere fortemente in voga alla nascita della saga, e che ancora oggi annovera tanti appassionati nostalgici, il picchiaduro a scorrimento.
La linea guida dell’omaggio di questo adattamento videoludico chiama dunque in causa sia gli aspetti centrali della sue matrici cinematografiche e seriali, così come gli aspetti più propriamente ludici ed estetici: il periodo in cui è nata la saga cinematografica viene richiamato grazie alla contestualizzazione ludica di genere e al riarrangiamento di alcuni temi musicali originalmente composti da Bill Conti, mentre il periodo contemporaneo in cui è nato il serial viene richiamato non solo dalla presenza dei suoi personaggi principali, ma anche dalla scelta estetica dell’utilizzo costante del cel-shading.
A prescindere dai pareri della critica e del pubblico, questo titolo può dunque essere preso come esempio rilevante per comprendere che la via dell’omaggio, al di là del suo trasporto nostalgico, può rappresentare una solida strada per tutti quegli sviluppatori desiderosi (o incaricati) di portare alla luce un adattamento videoludico.

Matteo Genovesi
Dottore di Ricerca, Università di Udine

Bibliografia

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  • Bittanti M. (2008a), Introduzione in Id. (a cura di), Schermi Interattivi. Il cinema nei videogiochi, Meltemi, Roma, pp. 7-14.
  • Bittanti M. (a cura di) (2008b), Intermedialità. Videogiochi, cinema, televisione, fumetti, Unicopli, Milano.
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  • Fassone R. (2017), Cinema e videogiochi, Carocci, Milano.
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  • Giannone M., Romanini M. (2012), CIAK! SI GIOCA. Il rapporto tra cinema e videogiochi, UniversItalia, Roma.
  • Giovagnoli M. (2013), Transmedia. Storytelling e comunicazione, Apogeo, Milano.
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