Quando si tratta di analizzare un universo complesso e sfaccettato come quello dei videogiochi, il fuoco della nostra attenzione può allargarsi fino a comprendere forme espressive apparentemente lontane e difficilmente coniugabili con il medium videoludico: una di queste è il teatro. Storicamente separate da secoli di innovazioni dei linguaggi e della tecnologia, le performance sul palcoscenico e quelle all’interno dei mondi finzionali sono in realtà più simili di quanto si sia portati a pensare. E non potrebbe essere altrimenti, perché quando i media audiovisivi erano ancora solo un lontano miraggio, il teatro risultava il mezzo di comunicazione elettivo per poter intrattenere con successo un’audience.

Ecco, “intrattenere”: il verbo chiave è proprio questo. La maggior parte delle volte, il teatro (e con esso molti altri mezzi di comunicazione, come la televisione) intrattiene. I videogiochi, invece, trasportano sempre e comunque il fruitore su un palcoscenico, spingendolo a una fruizione estremamente attiva. Che tale palcoscenico sia solo metaforico o anche reale, dipende dalle meccaniche del gioco stesso.

Esplorare il ruolo del videogiocatore non è l’oggetto di questo articolo, per cui mi limiterò solo a un breve accenno all’argomento. La sostanza è questa: l’atto di accendere una console e prendere in mano un controller ci trasforma automaticamente in attori improvvisati all’interno della storia scritta da qualcun altro. Ma la cosa interessante è che le redini della storia le teniamo noi: senza di noi, senza i videogiocatori, il videogioco non esiste. Il personaggio resta fermo (talvolta intrattenendo sé stesso con qualche breve idle animation), in attesa del ritorno del suo “burattinaio”. In certi casi questa “dipendenza” è resa molto evidente: nella saga di The Sims (Maxis, 2000), per esempio, i personaggi si voltano verso la telecamera e richiamano esplicitamente la nostra attenzione quando percepiscono di essere stati trascurati, a riprova del fatto che il ruolo del videogiocatore sia di estrema importanza (non a caso, questi giochi di simulazione vengono chiamati anche god games).

Ma il caso di The Sims serve solo come introduzione all’argomento chiave dell’articolo: dal prossimo paragrafo in poi mi occuperò di presentare una panoramica di sei prodotti videoludici che, in modi diversi e in certi casi molto ingegnosi, hanno saputo implementare l’elemento del teatro nel loro gameplay e/o nella loro storia.

 

Il rapporto tra videogiochi e teatro può svilupparsi a diversi gradi di complessità: Paper Mario: Il portale millenario (Nintendo, 2004), Mabinogi Fantasy Life – Generation 14: Romeo and Juliet (devCAT studio, 2004), Puppeteer (SCE Japan Studio, 2013) e The Gunstringer (Twister Pixel Games, 2011) rappresentano un campione tutto sommato eterogeneo, ma con più di un elemento in comune.

In tutti e quattro i casi, l’azione principale si svolge su un palcoscenico – a rinforzare la metafora teatrale non sono solo le sceneggiature e/o i nemici fatti di legno, ma anche la presenza di una vivace platea che reagisce a ciò che vede. In Paper Mario, per esempio, ingraziarsi il pubblico attraverso il rispetto di determinate tempistiche negli scontri a turni significa ottenere dei bonus che, di rimando, permettono a Mario di combattere in maniera più efficace (Toniolo, 2014, p. 190). Puppeteer propone una meccanica simile: anche in questo caso, grazie al sapiente posizionamento della telecamera di gioco, l’utente si identifica simultaneamente con i membri dell’audience e con il burattinaio responsabile di quanto accade sul palco, diventando a tutti gli effetti spettatore dello spettacolo che lui stesso si ritrova a dover dirigere. Una dinamica particolare e, torno a ripeterlo, strettamente tipica del medium videoludico, in virtù dell’alto coinvolgimento (o, per usare un lessico specialistico, dell’alto engagement) che lo caratterizza per natura.

Mabinogi Fantasy Life – Generation 14: Romeo and Juliet (che per comodità chiameremo Mabinogi) e The Gunstringer provvedono a rinforzare l’identità attoriale dell’utente trasportandolo a 360° sul palco: nel primo caso, il giocatore controlla il suo personaggio customizzato e lo guida all’interno di una rappresentazione della famosissima tragedia shakespeariana, Romeo e Giulietta. La customizzazione rappresenta proprio uno degli elementi di novità di questo esempio: fatta eccezione per alcuni rari momenti in cui il giocatore si ritrova a controllare il giovane Romeo, a muoversi e a interagire con gli altri attori è un personaggio (in certi casi rigorosamente illuminato dai riflettori) che indossa abiti distanti anni luce dalle consuetudini veronesi del 1300 (una scelta stilistica che potrebbe far storcere il naso ai non appassionati del genere MMORPG). In tutto questo, l’audience non ricopre un ruolo particolarmente rilevante, ma non risulta nemmeno totalmente assente: durante i titoli di coda, infatti, il rapporto con il teatro si fa ancora più stretto, perché il giocatore viene a tutti gli effetti inserito all’interno di un cast di personaggi intenti a ripassare i loro copioni, a impegnarsi in lezioni di ballo e scherma, e a inchinarsi sul palco di fronte a un pubblico entusiasta.

Trattandosi di un MMORPG, Mabinogi richiede che siano soddisfatti determinati requisiti per poter partecipare alle speciali Theatre missions come quella appena descritta. In altre parole, a seconda dello stile di gioco dell’utente, far sì che il proprio personaggio salga sul palco del Globe Theatre di Avon per diventare un attore nel cast di Romeo e Giulietta potrebbe non risultare strettamente tassativo (tanto più se si considera il fatto che, per accedere al successivo gruppo di quests – la “Generation 15”, a tema Mercante di Venezia –, il giocatore non è necessariamente tenuto a completare tutte le missioni della “Generation 14”). Viceversa, The Gunstringer non offre alcuna possibilità di scelta: questo sparatutto su binari rende da subito chiaro il fatto che il teatro rappresenti un elemento portante dell’intera meccanica di gioco. Tutto ciò a partire dal filmato iniziale in stile live-action, in cui un gruppo di macchinisti si occupa di allestire la scenografia dello spettacolo mentre il pubblico prende posto nella platea del Paramount Theatre di Austin. La grafica mista (con spettatori in carne e ossa e modelli in 3D presenti simultaneamente) viene presto rimpiazzata da uno scenario completamente in CGI, in cui il Gunstringer (uno scheletro vestito da sceriffo, come si vede nell’immagine poco sopra) corre, salta e combatte per vendicarsi dei compagni che l’hanno tradito e ucciso. Certo, se paragonato ai tre esempi precedenti, in questo caso la metafora teatrale viene un po’ a cadere quando il protagonista comincia a percorrere i sentieri sterrati del Far West (oppure quando sfoggia delle espressioni facciali cartoonesche). Ma una volta sospesa la propria incredulità, il giocatore può percepirsi ancora una volta e a tutti gli effetti calato nei panni di un marionettista: tanto per cominciare, il Gunstringer è manovrato da un bilancino sospeso sopra la sua testa, e in certe sezioni di gioco si può ritrovare una meccanica molto simile a quella di Paper Mario e Puppeteer, con il protagonista e il suo avversario trasformati in pupazzetti che si scontrano davanti a un pubblico in grado di reagire a ciò che accade sul palco.

Seppure distanti a livello di genere e meccaniche di gioco, Paper Mario, Puppeteer, Mabinogi e The Gunstringer presentano una modalità di ibridazione col teatro sostanzialmente molto simile. Tale ibridazione si concentra attorno ad alcuni elementi in particolare (in certi casi condivisi da tutti e quattro i prodotti, oppure solo da alcuni di essi), tra cui: un palcoscenico, una scenografia di legno, degli attori, delle marionette, un sipario che divide i livelli/le cutscenes, un voice over che fa da collante tra le varie ambientazioni, una platea più o meno attiva (e reattiva) e un videogiocatore che si identifica simultaneamente con i membri del pubblico e col direttore dello spettacolo.

Naturalmente, quella appena descritta non è la sola modalità in cui teatro e videogiochi si ritrovano ibridati nel panorama mediatico contemporaneo: nel prossimo paragrafo, Theatre of the Absurd (Gogii Games, 2012) e Pathologic 2 (Ice-Pick Lodge, 2019) serviranno per dimostrare come la contaminazione tra i due media possa avvenire in maniera meno evidente e più raffinata, fino a toccare il piano esistenziale, filosofico e/o metaludico.

Theatre of the Absurd e Pathologic 2 rendono il loro rapporto con il teatro evidente ed enigmatico allo stesso tempo: in entrambi i casi, l’edificio in cui il protagonista si reca è macabro e inquietante, con una meccanica e una finalità ben distanti da quelle raccontate nel paragrafo precedente.

A fronte di un gameplay sostanzialmente intuitivo (tipico dei punta-e-clicca) e di una storia apparentemente lineare, Theatre of the Absurd presenta alcuni risvolti che rendono decisamente giustizia al suo nome: tanto per cominciare, la protagonista Scarlett Frost, esperta di arti oscure, viene invitata in un sinistro teatro sulle Alpi italiane per sconfiggere il demone che si è impossessato delle anime dei due misteriosi residenti, il Dottor Corvus e sua figlia Bethany. A circa metà gioco, si palesa il primo (assurdo) colpo di scena: per poter portare a termine il suo incarico, Scarlett deve volontariamente arrendersi alle forze del male. Non solo: come anticipato, in questo esempio il teatro in quanto edificio è un luogo spettrale sommerso dalla polvere e dagli scheletri, che cela una grotta infernale ricolma di lava e decorazioni egizie. Questo fatto, assieme all’assurdità della storia in sé (e soprattutto del suo finale, che eviterò di spoilerare in questa sede), rende fondamentalmente chiara la ragione che potrebbe aver motivato la scelta dietro al titolo. Anche perché, specifichiamolo, Theatre of the Absurd ha poco a che vedere con il vero Teatro dell’Assurdo (quello di Aspettando Godot e Les Bonnes, per intenderci): l’assurdità paventata nel nome del gioco si comprende proprio rivolgendo la nostra attenzione al versante più strettamente metaludico.

Pathologic 2, rifacimento dell’omonimo Pathologic, porta alle estreme conseguenze questa metafora: il teatro è qui inteso come l’essenza stessa del gioco – anzi, di tutti i videogiochi. Ma andiamo con ordine: tanto per cominciare, in questo criptico RPG horror survival l’utente si trova a rivestire i panni di tre personaggi (Artemy Burakh – detto “Haruspex” –, Daniil Dankovsky – “Bachelor” – e Clara – “Changeling” –) incaricati di trovare una cura per l’epidemia che sta mietendo vittime nelle remote steppe della Russia. Il tutto con la (dolorosa) consapevolezza che salvare tutti sarà letteralmente impossibile. Il primo episodio si focalizza sul personaggio di Artemy: l’Haruspex si risveglia dietro le quinte di un teatro avvolto dal silenzio, per poi incontrare Mark Immortell (il direttore) sul palco, il quale si lamenta della “scarsa performance” del protagonista. Subito dopo, l’ambientazione cambia aspetto, assumendo le sembianze di una sorta di ospedale per i malati (in cui sono presenti, tra gli altri, anche Daniil e Clara). Artemy può dunque uscire dal teatro e attraversare la città quasi deserta all’esterno dell’edificio per raggiungere Mark Immortell e chiedergli una “seconda chance”. Chance che, una volta accordata, darà nuovamente inizio allo spettacolo (“The Play”).

Come si evince da questa premessa, il teatro in Pathologic 2 svolge un ruolo chiave che sconfina, ancora una volta, nel versante metaludico: Artemy, Daniil e Clara non sono altro che “maschere” che il giocatore indossa per dodici giorni al fine di prendere parte a uno spettacolo che parla dell’inesorabilità della morte e dei (vani) tentativi degli esseri umani di opporvisi. L’utente interpreta un ruolo, e tutti gli altri personaggi non sono che attori pronti ad assecondare le sue scelte e a “rinascere” ogni volta per rivivere la stessa storia in maniera fondamentalmente ciclica. Questa logica è, come anticipato, il principio su cui si basano un po’ tutti i videogiochi: tra le righe, Pathologic 2 tenta una trattazione davvero molto elaborata del medium in esame e del suo utente (un po’ come fa Hitchcock intendendo lo spettatore cinematografico come un guardone nel suo La finestra sul cortile). Alla fine della storia, in modo da “rilanciare” l’attenzione del giocatore sul prossimo episodio (ancora senza una data d’uscita definita), Mark Immortell si dichiara nuovamente insoddisfatto della performance di Artemy e ritiene che sia giunto il momento di ingaggiare un nuovo attore per la prossima rappresentazione della vicenda – qualcuno che sia esperto di morte, che l’abbia studiata a fondo, tanto da diventarne la peggior nemesi: Daniil, il tanatologo. Un archetipo differente di protagonista per lo stesso racconto.

Dietro la facciata del classico survival, quindi, Pathologic 2 individua nel teatro la colonna portante della sua intera struttura. Ma al di là delle derive maggiormente metaludiche (come quelle appena descritte), mi preme segnalare due ulteriori istanze. La prima riguarda un momento in cui il giocatore si identifica davvero nei panni di uno spettatore: alla fine di ogni giornata è infatti possibile assistere alle inquietanti e surreali pantomime ad opera delle Maschere (personaggi molto simili ai medici della peste, che appaiono spesso durante la storia per rivolgersi direttamente al giocatore). La seconda riflessione, non poco complicata da considerare, deriva dalla descrizione ufficiale dei personaggi. Mark Immortell viene presentato come “l’incarnazione” del teatro: un uomo senza un passato, né una vita privata, dotato di poteri che trascendono la realtà. Tali poteri, come ad esempio quello di dare inizio allo “spettacolo” (The Play), gli permettono di imporre limitazioni di vario genere al giocatore.

La domanda che sorge spontanea, e con la quale vorrei chiudere questo paragrafo, riguarda proprio questo personaggio: chi è davvero Mark Immortell?

La risposta più sensata alla quale sono pervenuta è che il direttore del teatro sia una manifestazione fisica del gioco stesso: se l’intera storia di Pathologic 2 è da intendere come uno spettacolo teatrale, e se Mark ha il potere di dare inizio a tale spettacolo, ha senso immaginare che la sua presenza sia l’incarnazione di quelle opzioni che normalmente appaiono sullo schermo per domandarci se desideriamo iniziare una nuova partita, ricominciare da un salvataggio esistente, e così via. In altre parole, è come se gli sviluppatori avessero tentato di trasferire l’anima del videogioco in un corpo digitale nella sua essenza, ma umano nelle sembianze (quello di Mark, appunto), col quale possiamo dialogare in maniera apparentemente più naturale.

Si tratta, me ne rendo conto, di un livello di ginnastica mentale non indifferente. Perciò, a chiunque desideri cimentarsi nell’impresa di cogliere tutte le varie sfumature di significato di Pathologic 2, si può solo augurargli buona fortuna.

L’ultimo esempio di contaminazione si configura come un caso particolarmente interessante di “dinamica inversa” rispetto a quella descritta nei paragrafi precedenti: Best Before non è un videogioco esperibile all’interno delle mura domestiche, ma un progetto molto particolare ideato dal gruppo tedesco Rimini Protokoll che trasporta l’esperienza videoludica all’interno di una sala teatrale.

Una volta preso posto nella platea, i 200 partecipanti, controller alla mano, si ritrovano a guidare i loro avatar (definiti, non a caso, “actors”) attenendosi alle indicazioni dei quattro “esperti” presenti sul palco (un programmatore, un collaudatore di videogiochi, un politico e un ausiliario del traffico). Lo scopo? Dare vita al mondo di Bestland, un minuscolo universo virtuale simulacrale presieduto dal processo che Waggoner ha definito verisimulacratude, il quale presuppone che il giocatore riesca a immergersi totalmente nel videogioco e identificarsi nell’avatar che lo rappresenta (Waggoner, 2013). Il mondo di Bestland evolve grazie alle decisioni prese dagli spettatori, e (proprio in virtù di questa evidenza) gode della capacità di rinnovarsi ogni qualvolta la sala si ritrovi a ospitare nuovi partecipanti.

In questo contesto, si può facilmente notare l’instaurarsi di una duplice performance: quella virtuale dei giocatori all’interno di Bestland (i veri protagonisti dell’esperienza), e quella non-virtuale degli esperti presenti sul palco (che fungono da coordinatori dell’azione e ricoprono un ruolo che in parte richiama quello di Mark Immortell in Pathologic 2).

In definitiva, Best Before si configura come un intelligente esperimento sociale che unisce il divertimento all’esplorazione delle modalità con cui le persone agiscono e interagiscono all’interno di un universo fittizio. Gli insights emersi denotano sfumature sociologiche e psicologiche interessanti, ma la critica non sembra aver ancora trovato un punto di incontro tra chi ritiene i risultati del progetto utili ai fini della ricerca scientifica e chi, invece, considera Best Before nient’altro che un semplice esperimento a cavallo fra teatro e videogioco (Toniolo, 2016).

L’articolo non può che concludersi così come è iniziato, ossia rimarcando l’evidente (ma talvolta ancora sottovalutata) natura sfaccettata dei videogiochi: i casi di ibridazione, come si è visto, sono diversi, e trovarne due che siano esattamente identici è un’impresa decisamente ardua. Un ulteriore spunto, non meno complicato di Theatre of the Absurd e Pathologic 2, e che pertanto meriterebbe di essere trattato in un articolo a sé stante, proviene da uno dei più recenti JRPG di Square-Enix: Nier Automata (2017).

Certo, esistono anche casi poco elaborati, come quello di The Sims 4, introdotto dall’espansione Nuove Stelle (2018), che permette ai Sims in età scolare di iscriversi al club drammatico per impiegare il proprio tempo libero in maniera produttiva: i bambini/teenager scompaiono semplicemente dalla visuale e tornano a casa dopo poche ore. Quest’attività, apparentemente passiva, richiede comunque al giocatore di dedicarsi ad alcuni task aggiuntivi per determinare il rendimento del proprio personaggio e svilupparne l’abilità di Recitazione. Ad ogni modo, già solo basandosi su questa descrizione è chiaro che un simile caso di contaminazione non sia assolutamente ai livelli di quelli trattati nei paragrafi precedenti. E c’è di più: per qualche strana ragione, i Sims non possono intraprendere la carriera di attori nel mondo del teatro (alla quale è possibile assimilare, in senso lato, solo il ruolo di Intrattenitore, che si declina a sua volta nei rami di Musicista e Comico).

Una precisazione: con queste considerazioni non intendo assolutamente denigrare la saga di Maxis (di cui sono una grande appassionata), ma solo riflettere sul perché, a ormai sette anni di distanza dall’uscita del gioco base, l’unica declinazione possibile della carriera di Attore per i Sims sia quella nel mondo del cinema.

Ad ogni modo, sono fiduciosa: forse una futura espansione colmerà anche questo gap.

Chiara Ambrogio

Laureata, Università Cattolica di Milano

Bibliografia

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