I videogiochi sono un medium complesso che si articola secondo diversi canali di comunicazione. Un’opera che può comunicare con l’utente tramite filmati, dialoghi, testi… ma anche grazie al level design o al gameplay, elementi che a volte vengono valutati solo in funzione dell’interattività e del divertimento che possono offrire, senza tener conto delle loro potenzialità narrative. In questo breve articolo cercherò di mostrare come proprio il gameplay possa fungere da strumento per raccontare storie, esporre tematiche e comunicare messaggi. Nello specifico, porterò come esempio The Witness (2016), secondo titolo indipendente dello sviluppatore Jonathan Blow.

Prima di iniziare, vorrei precisare cosa si intende per narrazione nei videogiochi. Infatti, all’interno del medium videoludico, si possono distinguere almeno due principali tipologie di narrazione, e distinguerle è essenziale per evitare fraintendimenti. LeBlanc (2000) è stato fra i primi esperti di game studies a mettere in luce questa distinzione. Da una parte abbiamo la cosiddetta Embedded Narrative, cioè la normale trama del gioco, gli eventi che il titolo vuole raccontare all’utente, o anche le tematiche che cerca di esporre. Ma essendo il videogioco un’opera in divenire, che viene portata avanti grazie alle azioni dell’utente, è possibile identificare anche quella che viene definita Emergent Narrative. Si tratta della storia delle azioni compiute dal giocatore, la narrazione relativa alle sue azioni di gioco. Data questa natura molto generica, ogni videogioco presenta una Emergent Narrative, persino titoli privi di trama come Tetris (1984). Quindi l’Embedded Narrative riguarda la trama e gli eventi del gioco, qualcosa di fisso e immutabile, mentre l’Emergent è relativa esclusivamente alle azioni del giocatore, e si configura come un’esperienza soggettiva, personale e sempre diversa (per quanto i game developer, solitamente, cerchino di veicolare un certo tipo di ‘esperienza standard’ per il target di riferimento). Sono comunque entrambe molto importanti e si influenzano a vicenda: lasciarsi coinvolgere dalla trama del gioco può portare l’utente a giocare in un certo modo, influenzando quindi l’Emergent Narrative risultante; viceversa, vivere il titolo con partecipazione, giocando in modo coerente con ciò che la trama racconta, può aiutare ad apprezzare maggiormente la storia e le tematiche offerte dal gioco.
Questa premessa è importante dal momento che il gioco che ho scelto, The Witness, riesce a comunicare col giocatore facendo uso quasi esclusivo dell’Emergent Narrative, mentre gli elementi Embedded, seppur presenti e rilevanti, non costituiscono da soli una narrazione coesa.

The Witness è un puzzle game con molti elementi da avventura grafica. Da un lato, si ispira palesemente a pilastri del genere (in particolare Myst, leggendario titolo per computer del 1993), dall’altro, presenta delle peculiarità che lo rendono decisamente interessante. Il gioco inizia con il protagonista rinchiuso in un bunker posto su un’isola deserta.

L’isola di The Witness

Non sappiamo chi sia il nostro personaggio, non sentiamo mai la sua voce e la visuale è in prima persona, sembra che il gioco voglia farci semplicemente identificare con questo avatar, come se si trattasse di noi stessi. Cercando di uscire da questo bunker, incontriamo subito i puzzle che ci accompagneranno per tutta l’avventura: le griglie. Il gameplay di The Witness consiste nell’affrontare delle griglie strutturate come dei labirinti, dove lo scopo è tracciare il percorso giusto che vada dal punto di partenza (segnalato da un cerchio) al punto di arrivo (un vicolo cieco sporgente rispetto al resto della griglia). Le griglie sono poi collegate a diversi meccanismi in modo tale che, risolvendole, avvengano dei cambiamenti nel mondo di gioco (l’apertura di una porta, lo spostamento di una pedana…). La prima griglia che incontriamo è semplicissima, basta tracciare una linea orizzontale per risolvere il puzzle e aprire la porta su cui la griglia era stata applicata. Ma la forza di The Witness sta proprio qui: il gameplay e le varie regole che governano i rompicapi non vengono mai spiegate esplicitamente al giocatore, egli deve comprenderle da solo giocando e procedendo per tentativi ed errori. Si nota questa meccanica già subito dopo essere usciti dal bunker, quando ci si trova in una sorta di area di tutorial con alcune griglie utili per esercitarsi. Vengono introdotte nuove informazioni come: una griglia può prevedere più direzioni come un labirinto; a volte sono presenti più punti di partenza e più punti di arrivo, e a seconda di quali si scelgano si otterranno risultati diversi sul mondo di gioco; a volte non basta tracciare una linea continua dal cerchio all’estremità, può essere necessario seguire un percorso ben preciso a seconda delle regole che governano ogni specifica griglia. Quest’ultimo è il precetto più importante, infatti in ogni area del gioco sono presenti regole diverse per risolvere le griglie (e a volte le regole di aree diverse si combinano, dando origine a puzzle particolarmente complessi).

Una griglia basilare, semplicemente strutturata come un labirinto

Ancora una volta, quali siano queste regole non viene comunicato al giocatore, che deve invece capirlo autonomamente, giocando, proseguendo attraverso istanze sempre più complicate di ogni regola. Ad esempio, i puzzle in cui sono presenti dei puntini neri lungo le righe della griglia. La regola, in questo caso, è che bisogna tracciare una linea che non solo vada dal cerchio all’estremità, ma passi anche su tutti i punti neri presenti. Il primo rompicapo di questo tipo che il giocatore incontra è molto semplice, ci sono poche direzioni e solo un punto da raccogliere. Basta compiere un paio di esperimenti per scoprire che tracciare la linea senza raccogliere il punto porterà al fallimento, mentre solo passandoci sopra la griglia risulterà completata. Seguiranno puzzle simili ma sempre più complessi, con più strade da seguire, più punti, e altre regole complementari.

Nello specifico, le aree di The Witness sono undici, oltre al tutorial, l’area finale e un’area segreta. Ognuna di esse presenta uno stile diverso di puzzle, ogni area introduce nuove regole. I rompicapi possono comunque essere ricondotti a due macrocategorie: quelli basati principalmente sulla logica e quelli basati sullo studio dell’ambiente (più una terza: quelli basati sulla combinazione delle prime due). Appartengono al primo tipo quei puzzle che contengono la soluzione già al loro interno, una volta comprese le regole di svolgimento. Basta studiare attentamente la griglia per risolvere il rompicapo. Un esempio già citato sono le griglie con i puntini neri da raccogliere lungo il percorso. Questa meccanica è piuttosto semplice, perciò si trova spesso associata con altre meccaniche in modo da rendere i puzzle più complessi. L’area della ‘cava’, ad esempio, si basa principalmente sul dividere i colori diversi. Nei puzzle di questo tipo sono presenti sulla griglia alcuni blocchi con al loro interno dei quadrati colorati (di solito bianchi o neri). La regola da rispettare è che, nel tracciare la linea, blocchi di colore diverso non devono essere presenti nella stessa porzione di spazio, la linea dovrà in qualche modo dividerli (ad esempio tagliando la griglia a metà in senso verticale), mentre quelli dello stesso colore possono anche essere compresi nella stessa porzione. A questa regola viene spesso associata quella di raccogliere i punti: quindi bisognerà tracciare una linea che allo stesso tempo divida i blocchi di colore diverso e passi sopra ogni punto. Come per tutte le regole, anche quella dei colori viene introdotta in modo diretto, senza descrizioni esterne, passando da esempi più semplici a casi progressivamente più complicati. In una griglia composta di soli due blocchi, uno nero e uno bianco, risulta immediato capire quale linea sia quella giusta e quali combinazioni portano invece al fallimento. Senza contare che, come nel caso dei punti da raccogliere, anche questa meccanica è molto intuitiva: raggruppare il simile e dividere il dissimile sta alla base di molti altri giochi.
Per quanto riguarda invece gli enigmi ambientali, la griglia in sé non contiene la soluzione del puzzle, spesso è totalmente vuota, bisogna osservare attentamente l’ambiente circostante per capire che linea disegnare. Una serie di rocce di diversa altezza poste vicino alla griglia possono indicare che la linea deve seguire i contorni delle rocce, andando verso l’alto per seguire le più alte e verso il basso per le più piccole. Oppure, la luce del sole può proiettare le ombre dei rami degli alberi sulle griglie e indicare la traiettoria da seguire in base alle porzioni di luce che si fanno strada dal cerchio di partenza al punto di arrivo.

Grazie a questa struttura, The Witness sfrutta pienamente quello che viene definito Interactive Storytelling. Si tratta di una forma di narrazione esclusiva per i videogiochi che consiste nel raccontare storie e comunicare messaggi tramite l’interazione del giocatore con il sistema. Ogni videogioco con una componente narrativa fa ricorso a questo tipo di storytelling, in fondo la trama può andare avanti solo se il giocatore si adopera per farla proseguire. Ma se nella maggior parte dei casi lo scopo dell’utente è interagire col sistema per far proseguire una narrazione di tipo Embedded, una trama vera e propria, nel caso di The Witness la narrazione è quasi esclusivamente Emergent, ed emerge appunto grazie alle azioni che il gioco porta l’utente a compiere. In realtà non si può parlare di narrazione vera e propria, infatti The Witness non vuole raccontare una storia, cerca piuttosto di comunicare qualcosa all’utente. A un livello più superficiale, ciò che viene trasmesso grazie all’interazione sono le regole per risolvere i puzzle. Osservando attentamente l’ambiente, imparando dalle esperienze precedenti e procedendo per tentativi ed errori, il giocatore impara da solo le regole delle varie griglie e capisce come proseguire nel gioco. Più in profondità, lo scopo di The Witness è far comprendere al giocatore come affrontare in modo ‘scientifico’ lo studio dell’ambiente, fino a trasmettergli una certa maniera di osservare il mondo circostante. Passare da semplici griglie a tutto questo sembra molto ambizioso, vediamo come The Witness tenta di raggiungere il suo obiettivo.

Non è possibile proseguire nel gioco procedendo a caso, ci si rende conto ben presto che, nel tentativo di comprendere le regole delle griglie, si finisce per adottare comportamenti ben precisi che possano aiutarci a capire il rompicapo. È il gioco stesso a essere strutturato in modo tale da ‘costringere’ l’utente a adottare questi comportamenti. E nello specifico si tratta dei comportamenti relativi al metodo scientifico. Per metodo scientifico intendo in questo caso i cosiddetti ‘modelli deboli’, cioè quelle correnti di filosofia della scienza basate su pilastri come il rifiuto di affidarsi solo all’esperienza (come si riteneva nel positivismo, ad esempio), o come la convinzione che un sistema teorico non sia mai assoluto e infallibile, ma possa sempre essere messo in discussione. Ritengo che siano due i filosofi della scienza maggiormente adatti a venire in nostro soccorso e spiegare cosa accade al giocatore–scienziato di The Witness: Karl Popper e Thomas Khun.

Si veda innanzitutto come nasce la spinta alla riflessione e alla ricerca. La scienza non nasce banalmente dall’osservazione, dal semplice accumulo di dati. Per Popper la scienza nasce dai problemi, dallo scontro con la realtà. Il giocatore di The Witness, limitandosi a vagare per l’isola e a osservare le griglie senza rifletterci su, non si porrà alcun interrogativo su come risolvere i puzzle. Questi fenomeni non lo stimolano e non lo intralciano in alcun modo, non vi è motivo per indagare sul loro funzionamento. Solo quando si prova a risolverli e si fallisce (magari perché rispettano regole che non si conoscono, si oppongono a ciò che si credeva essere corretto), solo nel momento in cui essi costituiscono un problema (ad esempio perché senza risolverli non si può proseguire), solo allora l’attività ‘scientifica’ ha inizio. Popper (1963) scrive: “La scienza […] comincia con teorie, con pregiudizi, superstizioni, miti: o, piuttosto, comincia con la sfida e l’abbattimento di un mito: comincia cioè quando alcune delle nostre aspettazioni sono state disilluse. Ma ciò significa che la scienza comincia con problemi: problemi pratici e problemi teorici”. Essere posti di fronte a un fenomeno di cui si ignorava l’esistenza, cioè un puzzle di cui non si conoscono le regole, equivale a compiere una scoperta. Popper (1935): “La scoperta comincia con la presa di coscienza di una anomalia, ossia col riconoscimento che la natura ha in un certo modo violato le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale”.
Nella maggior parte dei casi, durante le fasi iniziali di gioco, l’utente è convinto che basti disegnare una linea che vada dal cerchio iniziale all’estremità finale, ma, posto di fronte a puzzle che introducono nuove regole, il suo tentativo risulta un fallimento, le sue aspettazioni vengono disilluse, e deve comprendere quali altre regole governano la griglia che ha di fronte. In ogni area, i primi puzzle che introducono una nuova regola sono molto semplici da risolvere, bastano pochi tentativi. Posto di fronte a una griglia con i quadrati bianchi e neri, il giocatore presumibilmente avrà l’intuizione di provare a tracciare una linea che divida i bianchi da una parte e i neri dall’altra. Popper ritiene che le nuove idee, le teorie, non nascano dall’osservazione, ma abbiano un’origine inspiegabile, quasi irrazionale. Sono intuizioni che semplicemente nascono nella mente dello scienziato. Popper (1935): “Non [esiste] nessun metodo logico per avere nuove idee, e nessuna ricostruzione logica di questo processo. […] Ogni scoperta contiene un elemento irrazionale”. Senza possedere già particolari conoscenze in merito, nel momento in cui si riesce a risolvere un problema simile, si attua un processo di apprendimento attraverso l’esercizio o attraverso l’azione, si apprende tramite il fare e, nel caso specifico del videogioco, viene comunicato qualcosa al giocatore esclusivamente tramite il gameplay. Le intuizioni ‘irrazionali’ possono anche rivelarsi sbagliate, l’importante è che possano essere applicate ai fenomeni dell’esperienza in modo tale da metterle alla prova ed eventualmente imparare dagli errori commessi per poi elaborare nuove teorie.
I puzzle iniziali che introducono una nuova regola senza ulteriori complicanze, nella teoria di Kuhn funzionano da ‘casi esemplari’, cioè dei modelli su cui basare l’analisi di fenomeni simili a questi già compresi. Kuhn (1962): “Lo studente scopre […] un modo di vedere il suo problema come simile a un problema che ha già incontrato. Avendo vista la rassomiglianza e afferrata l’analogia tra due o più problemi distinti, è in grado di correlare tra loro i simboli e di applicarli alla natura nei modi che si sono dimostrati efficaci precedentemente”. Il giocatore, di fronte a nuovi puzzle dello stesso tipo, potrà basarsi sui modelli più semplici risolti in precedenza e applicare lo stesso procedimento che si è già rivelato efficace. Il processo che porta dalla risoluzione di puzzle più semplici fino ai più complessi, con gli eventuali cambi di teorie e punti di vista che possono avvenire durante il percorso, era stato pienamente previsto da Blow (2017):


“The puzzles start off very simple where there’s only a few things you can possibly do. And you maybe try them and one of them is right and the other ones are wrong and then you start to engage a sort of pattern understanding kind of mind. “Why was that one right and the other ones wrong?” And you maybe form an idea. And then you see that idea holds up for the next few and it might hold up for a couple and then turn wrong. “Wait I thought I understood what’s going on”. […] It’s a process of developing an understanding from something very simple to something very complex actually”.

A questo punto il giocatore è in possesso di una teoria (un ‘paradigma’ direbbe Kuhn) che gli permette di risolvere tutti i rompicapi di un certo tipo. Kuhn risulta di grande aiuto per descrivere l’atteggiamento del giocatore–scienziato nei confronti del corpus di teorie ormai consolidato. Al giocatore non interessa avvicinarsi alla verità o assicurarsi che la sua teoria possa resistere agli esami più feroci, la sua preoccupazione principale è che la teoria in suo possesso gli permetta di risolvere dei rompicapi sempre nuovi ma appartenenti a tipologie già conosciute (cioè si conosce la regola che li governa, bisogna solo trovare il modo di risolvere le singole griglie). Infatti, secondo Kuhn, lo scienziato, anche di fronte e nuovi fenomeni o piccoli errori, cerca di difendere il proprio paradigma fino a quando riesca a funzionare. Kuhn (1962):

“Fin tanto che gli strumenti forniti dal paradigma continuano a dimostrarsi capaci di risolvere i problemi che questo definisce, la scienza si muove molto velocemente e penetra assai profondamente usando con fiducia quegli strumenti. […] Nella scienza il cambiamento di strumenti è una stravaganza che va riservata per l’occasione che lo richiede”.

Ma cosa accade quando ci si trova di fronte a nuovi fenomeni? A volte possono essere studiati e compresi nel paradigma già esistente, in altre situazioni sarà necessario elaborare una nuova teoria.
Il ‘bunker’ è un’area in cui compaiono nuovamente i puzzle basati sui quadrati da raggruppare e isolare in base ai colori. Le prime novità che saltano immediatamente all’occhio sono l’uso di molti altri colori rispetto al bianco e al nero, e la presenza di più di due colori per volta sulle griglie. Questi nuovi puzzle sono simili, seppur non identici, a quelli basati sul bianco e il nero affrontati precedentemente (il gioco permette di affrontare ogni area in ordine sparso, ma partendo dalla zona di tutorial, si giungerà presso alcune aree prima di altre, creando indirettamente un ordine legato alla posizione di ciascuna area rispetto al punto di partenza). Il primo pensiero del giocatore sarà di provare a utilizzare lo stesso criterio di separare i quadrati di colore diverso sulla griglia, e il risultato sarà positivo, almeno per i puzzle iniziali. A un certo punto ci si trova di fronte a un rompicapo apparentemente irrisolvibile. Ogni quadrato della griglia è colorato, sono presenti in totale sei colori diversi, sembra che nessun modo di tracciare la linea riesca a tener separati i colori in porzioni di spazio distinte. In questo caso il paradigma utilizzato finora risulta ancora capace di risolvere questo tipo di rompicapo, se lo si adotta a dovere, ma il giocatore impara una nuova regola fondamentale del metodo scientifico: l’esperienza non è mai una fonte affidabile di conoscenza, e per quanti fenomeni di un certo tipo si possono riscontrare, non si può garantire che i casi non ancora osservati concordino sempre con ciò che si è già esperito. Si tratta del problema dell’induzione: “il resoconto di un’esperienza — di un’osservazione, o del risultato di un esperimento — può essere soltanto un’asserzione singolare e non un’asserzione universale”, scrive Popper (1935). Il giocatore finora credeva che tutti i puzzle basati sui quadrati colorati contenessero la soluzione già nella griglia stessa, basta separare i colori diversi. Ma questo rompicapo (e molti altri presenti nel bunker) aggiunge una nuova regola: oltre a separare i quadrati, bisogna assicurarsi che i colori sulla griglia siano giusti. Infatti, a poca distanza dalla griglia, posta di fronte a essa, si trova una vetrata colorata. Provando a osservare la griglia non a distanza ravvicinata, ma frapponendo la vetrata tra il proprio punto di vista e il puzzle, si noterà che i colori sulla griglia risultano distorti a causa del colore del vetro. Si passa da sei colori a solo tre: il rosso e il viola si uniformano diventando un rosso chiaro, il blu e il nero diventano una sorta di grigio, e il verde e l’azzurro diventano un verde appena visibile. A questo punto è possibile risolvere il puzzle utilizzando lo stesso metodo di prima, ma tenendo conto dei nuovi colori. Questi tipi di rompicapo combinano la componente logica con quella ambientale, costringendo il giocatore a adottare letteralmente un nuovo punto di vista. Il paradigma di riferimento è comunque salvo: basta adattarsi alla situazione e i nuovi fenomeni possono essere ricompresi al suo interno.

Osservare la griglia attraverso un vetro colorato, mostra i veri colori da tenere separati

Ora un caso in cui il vecchio paradigma non può più funzionare. L’area delle ‘case sugli alberi’ presenta dei puzzle simili a quelli discussi finora, ma stavolta i blocchi non presentano dei quadrati colorati al loro interno, bensì delle stelle. Il giocatore inizialmente proverà a utilizzare lo stesso paradigma valido per i quadrati, e, in base a come viene tracciata la linea, probabilmente i primi rompicapo potranno essere risolti grazie a questo paradigma. Ben presto ci si accorge che questo metodo non va più bene, i puzzle con le stelle respingono le azioni del giocatore. Il paradigma utilizzato fino a questo momento non è più valido, è necessario proporre una nuova teoria che permetta di proseguire. Il procedimento è simile a quello avvenuto la prima volta che ci si è trovati di fronte a un puzzle. Davanti al problema si avranno delle intuizioni su come funzionino questi nuovi fenomeni: ad esempio ‘le stelle devono sempre essere mantenute separate indipendentemente dal colore’, oppure ‘le stelle dello stesso colore devono essere raggruppate tutte insieme’. Queste intuizioni dovranno poi essere sottoposte al vaglio della sperimentazione pratica. Dopo alcune intuizioni testate e fallite, si scoprirà che la regola che gestisce le stelle è: ‘le stelle dello stesso colore devono essere raggruppate a coppie, nella stessa porzione di spazio possono comparire stelle di colori diversi, ma non più di due stelle dello stesso colore’.

Le stelle colorate funzionano in modo diverso rispetto ai quadrati

Di fronte ai nuovi fenomeni è stato necessario abbandonare il paradigma precedente e adottarne uno nuovo, ma non si tratta di un processo che avviene in modo improvviso o casuale. Il giocatore continua a utilizzare il metodo relativo ai quadrati anche con le stelle, e questo metodo, in alcune situazioni e in maniera casuale, si rivela efficace. Nel momento in cui provoca il fallimento, non lo si abbandona di punto in bianco, ma si cerca di adattarlo con delle leggere variazioni (come accade nel caso dei quadrati da osservare attraverso la vetrata colorata). Kuhn ribadisce più volte che non è sensato né produttivo abbandonare un paradigma che si sia sempre dimostrato valido fino a quel momento. Se i fatti continuano a entrare in contrasto col proprio corpus teorico, non si rinuncerà immediatamente al paradigma per poi procedere in maniera casuale, ma lo si sostituirà con un altro più efficace elaborato durante il periodo di incertezza, in seguito alle fasi di intuizione e sperimentazione. Kuhn (1962): “La decisione di abbandonare un paradigma è sempre al tempo stesso la decisione di accettarne un altro, ed il giudizio che porta a quella decisione implica un confronto sia dei paradigmi con la natura sia di un paradigma con l’altro”.

The Witness sfrutta il gameplay per insegnare al giocatore come affrontare lo studio dell’ambiente e finisce per fargli applicare certe pratiche del metodo scientifico senza che egli neanche se ne renda conto. L’utente viene ricompensato sia con la soddisfazione per essere riuscito a proseguire con le sue sole forze (senza che il gioco abbia dovuto tenerlo per mano spiegandogli tutto per filo e per segno), sia con la bellezza che riesce a scoprire nel mondo diegetico dopo centinaia di puzzle risolti. Infatti, dopo aver interiorizzato le regole dei rompicapi e averne risolti senza sosta per ore e ore, il giocatore inizia a notare gli stessi schemi anche nell’ambiente di gioco. Si iniziano a vedere ‘griglie’ formate dai rami degli alberi, da forme sulla sabbia, dalle nuvole nel cielo… e interagendo con queste conformazioni è effettivamente possibile risolvere come fossero griglie vere e proprie. Ognuna di queste scoperte è un momento di gioia per il giocatore, che scopre una nuova bellezza che è ora capace di vedere solo grazie agli sforzi compiuti.
L’operazione compiuta da The Witness è molto specifica e peculiare, ma ci sono tanti altri modi di sfruttare il gameplay per dar vita a forme interessanti di Interactive Storytelling. Ad esempio, in molti titoli si cerca di esplorare l’ambito della moralità tramite il gameplay. Quando il protagonista della storia è combattuto fra il bene e il male e deve compiere una scelta, il potere decisionale può essere lasciato nelle mani del giocatore stesso, che di conseguenza dovrà interrogarsi su quale sia la scelta più giusta e capire da solo cosa dovrebbe fare. Questo solitamente conduce a sviluppi di trama e finali concretamente differenti, in modo da far percepire al giocatore le proprie decisioni come rilevanti.
Un altro esempio degno di nota, probabilmente unico nel suo genere, è costituito da Hellblade: Senua’s Sacrifice. Qui la protagonista soffre di una grave forma di psicosi e il gioco tenta di replicare gli effetti della malattia sul giocatore facendogli sentire ‘voci inesistenti’ che commentano le sue azioni, o alterando visivamente ciò che viene mostrato su schermo. Tutto questo in modo da far immedesimare l’utente con la protagonista e fargli comprendere un po’ meglio cosa significhi soffrire di malattie simili.
Questi sono solo alcuni dei modi con cui si possono sfruttare il gameplay e l’interazione del giocatore per fini narrativi. I videogiochi sono ancora relativamente giovani, sarà interessante scoprire nuove strategie narrative che coinvolgano il giocatore e sfruttino in modo innovativo le opportunità fornite dal medium.

Daniele Cianflone

Laureato, Università Cattolica di Milano

Bibliografia
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  • Maietti M. (2017), Semiotica dei videogiochi, Edizioni Unicopli, Milano.
  • Maiocchi R. (1995), Storia della scienza in Occidente, La Nuova Italia, Firenze.
  • Maiocchi R. (2013), Ascesa e declino della scienza moderna, La Scuola, Brescia.
  • Morris D., Rollings A. (2004), Game Architecture and Design: A New Edition, New Riders, Indianapolis.
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  • Popper K. R. & M. Trinchero (2000), Scienza e filosofia, Problemi e scopi della scienza, Einaudi, Torino.
  • Salen K., Zimmerman E. (2004), Rules of Play: Game Design Fundamentals, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts.

 

Videografia