Cosa significa lavorare nel gaming in Italia? E cosa ci dicono ad oggi i contributi sociologici sul lavoro nelle industrie culturali e creative, in particolare nello sviluppo di videogiochi? Questo contributo cerca risposte a queste domande attingendo ad alcune parti della tesi di dottorato a cui sto lavorando, ovvero uno studio del senso del lavoro in questo giovane e sempre più rilevante settore creativo.

Le trasformazioni cruciali nel mondo del lavoro che hanno attraversato il XX° secolo hanno portato a un ruolo crescente delle professioni creative. Tali cambiamenti si legano al passaggio dall’epoca fordista – in cui il lavoro viene rappresentato da Charlie Chaplin con l’immagine dell’operaio che stringe ripetutamente bulloni alla catena di montaggio1all’epoca post-fordista, dove la produzione economica è flessibile, terziarizzata e globalizzata. In questo contesto, i termini “cultura” e “creatività” hanno progressivamente preso sempre più spazio, dando luogo a una moltiplicazione degli studi sulle industrie culturali e creative, e a un acceso dibattito in campo scientifico e politico.

Il concetto di industrie culturali e creative (ICC) venne utilizzato per la prima volta dal Commonwealth Australiano (1994) e successivamente dal governo britannico (DCMS 1998) per indagarne il peso e le potenzialità della cultura e della creatività come motori dello sviluppo economico, in particolare, di quello legato all’economia della conoscenza (knowledge economy). Nonostante non vi sia tuttora una definizione condivisa a livello internazionale di ICC, è stata però data piena cittadinanza nel linguaggio economico e politico al termine creatività, con l’individuazione da parte della Commissione Europea nel potenziale di crescita economica e occupazione delle ICC uno degli obiettivi per divenire competitiva a livello globale, arrivando alla formulazione del concetto di Creative Economy.  In questi termini, creatività e cultura sono indicati come fattori che generano sempre maggiore profitto e posti di lavoro, che innescano l’innovazione, che favoriscono lo sviluppo del territorio, che promuovono il talento, la diversità culturale e l’inclusione sociale.

In Italia, secondo la definizione della Legge di stabilità 2021, rientrano in questo tipo di industrie “tutte le attività dirette allo sviluppo, alla creazione, alla produzione, alla diffusione e alla conservazione dei beni e servizi che costituiscono espressioni culturali, artistiche o altre espressioni creative e, in particolare, quelle relative all’architettura, agli archivi, alle biblioteche, ai musei, all’artigianato artistico, all’audiovisivo, compresi il cinema, la televisione e i contenuti multimediali, al software, ai videogiochi, al patrimonio culturale materiale e immateriale, al design, ai festival, alla musica, alla letteratura, alle arti dello spettacolo, all’editoria, alla radio, alle arti visive, alla comunicazione e alla pubblicità”.

La sociologia ha affrontato la tematica del lavoro in questi settori con approcci e lenti teoriche molto eterogenee, focalizzando l’attenzione sia sulle dimensioni oggettive e strutturali del settore come il mercato del lavoro, i modelli organizzativi e le catene del valore, sia sui fattori che riguardano più specificatamente l’individuo, ovvero le persone occupate nell’industria e le loro rappresentazioni soggettive del lavoro. Più in generale, è possibile tracciare un continuum su cui la letteratura si dispone: da un lato vi sono i contributi che enfatizzano maggiormente gli aspetti vantaggiosi del lavoro creativo e dall’altro si ritrovano filoni con un orientamento critico rispetto al tema.

Nel primo caso viene evidenziata la crescente rilevanza dei settori produttivi della creatività: in termini di occupazione, di innovazione organizzativa, di impulso alla crescita economica, di promozione dell’inclusione sociale e di maggiore adattamento ai cambiamenti in corso nella sfera del lavoro. Tali considerazioni emergono sia nella produzione accademica (Florida 2002; Towse 2010; Lazzeretti et al. 2016), sia nei report e negli studi delle principali organizzazioni internazionali europee (Commissione Europea 2010; UNESCO 2018; OECD 2018). Una forte influenza nel dibattito pubblico è stata esercitata dalle riflessioni di Florida (2002) sullo sviluppo di una nuova classe creativa, costituita da lavoratori appassionati, autonomi, con una vocazione cosmopolita, attratti dalle grandi città, le quali secondo l’autore sono contraddistinte da tre fattori chiave: talento, tecnologia e tolleranza. Tuttavia, tali analisi sono state criticate da differenti teorici, come tra poco si vedrà, per la loro trascuratezza circa lo studio delle condizioni lavorative e delle disuguaglianze presenti all’interno di queste industrie.

Nel secondo caso, l’oggetto della ricerca sono principalmente le condizioni di vulnerabilità dei lavoratori (Hesmondhalgh e Baker 2011; Bellini et al. 2018), le forme di esclusione che investono la forza lavoro (Conor et al. 2015; O’Brien et al. 2016) e le questioni sociali di più ampio respiro legate alla nascita delle ICC (Banks 2017; McRobbie 2016). Il principale approccio critico allo studio del lavoro nelle industrie culturali e creative è quello della corrente marxista post-operaista. In particolare, i post-operaisti (Hardt e Negri 2000; Virno 2004; Bologna e Banfi 2011) e i ricercatori provenienti dai cultural studies (Gill e Pratt 2008; Hesmondhalgh e Baker 2008) hanno criticato con forza i processi di precarizzazione nel lavoro della conoscenza, con un focus particolare sulla soggettività dei lavoratori, indicando concetti chiave quali il lavoro immateriale e l’imprenditorializzazione del sé, in cui l’individuo stesso è incoraggiato a pensarsi come progetto e auto-promuoversi come un brand. In merito al lavoro immateriale, vengono chiamate in causa le problematiche che derivano dalla sua difficile misurabilità, poiché costituito da un insieme di capacità eterogenee, come l’intuizione, la capacità di adattamento all’imprevisto e di innovazione, il senso estetico, le abilità cooperative e le competenze tecnico-scientifiche (Thompson et al. 2016).

 

Le ricerche empiriche sul tema indagato mettono in rilievo una situazione comune in relazione al lavoro. Che si tratti di fashion designer (McRobbie 1998), di impiegati dell’industria televisiva dei reality show (Hesmondaigh e Baker 2008) o di programmatori (Ross 2003) ciò che emerge è che le industrie creative si distinguono per una forte e crescente divisione tra una ristretta élite, che detiene alti livelli di potere contrattuale, e un ampio insieme di lavoratori scarsamente qualificati, eccedenti rispetto alla domanda di lavoro e frequentemente costretti ad accettare retribuzioni sfavorevoli o forme precarie di impiego, come il lavoro autonomo, a progetto, a tempo determinato o gratuito (Ross 2003; Menger 2015). All’interno di questo precariato creativo, in cui i confini tra lavoro dipendente e lavoro autonomo sono spesso sfumati (Bergvall and Howcroft 2013), il lavoro può trasformarsi da una attività ricca di stimoli ad una serie di mansioni ripetitive. Ulteriori caratteristiche che accomunano i creativi sono connesse alla necessità di sviluppare e mantenere dei network produttivi e di costruire ed aggiornare il proprio portfolio, due aspetti che possono portare alcuni lavoratori ad accettare basse retribuzioni per investire sulla propria reputazione e sulle competenze acquisite (Antcliff et al. 2007). In questo senso, l’importanza del portfolio e del network dipendono dalla posizione lavorativa occupata e sono valutati da alcuni addetti dell’industria in modo favorevole e da altri in maniera problematica, in base alle capacità imprenditoriali e di self-branding  (Hesmondaigh e Baker 2008).

Nonostante queste premesse, emergono una serie di elementi positivi che riguardano le forti componenti soggettive e motivazionali dei creativi, per i quali il significato del lavoro viene associato all’autorealizzazione personale. Parte della letteratura evidenzia come l’aspirazione a trovare una occupazione in settori considerati glam e la passione per il proprio lavoro siano dimensioni chiave per i soggetti impiegati nell’industria. Tali fattori intrinseci sembrano essere in grado di rendere l’esperienza lavorativa altamente significativa rispetto all’esistenza e di favorire elevati rendimenti nelle mansioni svolte, seppure alcuni autori li identifichino come elementi direttamente connessi all’(auto)sfruttamento dei lavoratori (Ross 2003; Gill e Pratt 2008; Murgia et al. 2014).

Inoltre, sono in crescita le riflessioni sulle traiettorie della carriera creativa, tipicamente discontinue, frequentemente contraddistinte da transizioni da e verso il lavoro autonomo, in cui occupano un posto privilegiato il fenomeno dei lavori multipli e la capacità soggettiva di mantenere una identità professionale creativa anche quando si esercitano più occupazioni e la principale fonte di reddito proviene da un lavoro non creativo (Ashton 2015). Tali considerazioni mettono in luce diversi aspetti: in primo luogo il considerevole valore delle “ricompense” intrinseche del lavoro quali la passione, rispetto alle ricompense oggettive e strumentali come il reddito, che spingono a non abbandonare le attività lavorative creative; secondariamente, l’importanza della costruzione di una identità sociale e professionale non tradizionale e maggiormente desiderabile, in quanto basata su “cool jobs” in “hot industries” (Neff et al. 2005); in terzo luogo, il forte ruolo della comunità professionale e del network, poiché nell’accesso alle occupazioni creative risulta essere premiata la capacità di incarnare ed esibire identità riconoscibili associate alla creatività (Taylor e Littleton 2012).

1 Dal film Tempi Moderni(1936).

Lo sviluppo di videogames è un settore industriale e lavorativo molto recente all’interno delle ICC, tuttora in fase di strutturazione, e anche per questo motivo è stato studiato limitatamente all’interno delle discipline sociali e umanistiche. Una maggiore attenzione è stata rivolta al medium videogioco, nei suoi aspetti virtuosi in termini di impatto sociale, di cui ne rappresentano un esempio gli studi sugli applied games con destinazione culturale, educativa o medica, ma più spesso sono stati indagati i rischi collegati ai videogiochi, in particolare nella loro relazione con la violenza. Un crescente corpus di ricerche sul lavoro in questa industria ha iniziato ad ampliarsi negli ultimi 10-15 anni, a partire dagli studi che hanno evidenziato come gli occupati in tale settore rientrino a pieno titolo nei lavoratori della conoscenza e, di conseguenza, come siano sottoposti ai medesimi aspetti vantaggiosi e agli stessi rischi di precarizzazione (Thompson et al. 2016). Ulteriori ambiti di indagine sono stati le carriere e le pratiche di lavoro per descrivere i modelli organizzativi orizzontali, le condizioni di lavoro frequentemente sfavorevoli e le varie fasi del complesso processo di creazione del videogioco (O’Donnell 2014; Johnson 2013; Bulut 2015). Inoltre, sono in crescita gli studi sulla produzione di videogiochi indipendente, in cui emerge la mancanza di una definizione condivisa del concetto ‘indie’. Relativamente a queste ricerche viene sottolineato come la produzione indie abbia democratizzato il processo di produzione del videogioco, e ne vengono indagate sia le differenze rispetto alle grandi realtà dell’industria, sia i forti e crescenti legami di dipendenza con queste ultime (Martin e Deuze 2009; Lipkin 2013; Ruffino 2020; Styhre 2020). Infine, si stanno intensificando le ricerche sulle disuguaglianze presenti all’interno dell’industria, in particolare rispetto alle discriminazioni di genere (Consalvo 2008; Prescott e Bogg 2013; Srauy 2017).

Gli studi menzionati si concentrano quasi esclusivamente su sviluppatori localizzati negli Stati Uniti e in Asia, laddove cioè gli studi di sviluppo sono maggiori e l’industria più avanzata. A parte alcune eccezioni (Barca e Salvador 2012; Carbone e Fassone 2020), gli studi accademici italiani sul lavoro nel gaming, in particolare nella creazione e nello sviluppo di videogiochi da un punto di vista sociologico, sono tuttora scarsi ma in progressivo aumento. L’Italia ha intrapreso un percorso di professionalizzazione del settore soltanto recentemente, e la sua rilevanza a livello globale è in costante crescita, soprattutto come mercato di consumo, sebbene rappresenti ancora una realtà secondaria (Wolf 2015; Carbone e Fassone 2020).

Le caratteristiche dell’industria italiana di videogiochi sono invece ben presentate da differenti report istituzionali che ne delineano le peculiarità e il forte potenziale di crescita. Secondo i dati di “Io sono Cultura 2020”, realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, il settore dei videogiochi e software nell’anno 2019 ha fornito il contributo più importante alla produzione di valore aggiunto all’interno del sistema produttivo culturale e creativo, ovvero 12,5 miliardi di euro, cioè lo 0,8% del prodotto totale dell’economia italiana. Tali risultati mostrano una crescita costante e sorprendono rispetto alla giovane età dell’industria, di cui le prime realtà d’impresa risalgono agli anni Settanta. In termini di occupazione, nel 2021 si registra la presenza di 170.000 lavoratori, di cui 1.600 direttamente occupati nella produzione di videogiochi, secondo il Quinto censimento dei game developer italiani 2021 (IIDEA, IDG Consulting 2021).

Il panorama descritto da tale censimento ritrae una industria costituita soprattutto da una moltitudine di attori di piccole, o comunque limitate, dimensioni, i quali sviluppano competenze eterogenee per poter offrire anche servizi paralleli al fine di garantirsi una sopravvivenza nel settore (Balla 2020). Aprire o consolidare uno studio di sviluppo di videogiochi in Italia significa affrontare una serie di difficoltà legate a un mercato molto competitivo e complesso, in cui non esiste un sistema coordinato nella formazione dei professionisti, non viene percepita una forte presenza di publisher nazionali, i finanziamenti pubblici sono scarsi, seppure in aumento, e non sempre i team dispongono di risorse in termini di conoscenze imprenditoriali, di project management e di marketing (Ibid.).

Nonostante questo, dall’epoca dei garage team ad oggi, in Italia sono sempre più le software house che riescono a consolidarsi e crescere, grazie a una lenta maturazione e strutturazione del settore, a un riconoscimento sociale e istituzionale in crescita, all’aumento di scuole ad hoc e percorsi universitari dedicati, e a team di sviluppo che hanno saputo valorizzare le proprie risorse e organizzare il difficoltoso processo di concezione, pre-produzione, produzione e pubblicazione del gioco, sapendone curare anche il post-lancio.

Spostandosi ai singoli lavoratori, il 79% degli occupati ha un’età inferiore ai 36 anni e la maggiore concentrazione di lavoratori si registra nell’area art (30%) e technology (25%), rispetto ai restanti ambiti (design, management, support) (IIDEA, IDG Consulting 2021). Ognuna di queste differenti professionalità richiede anni di preparazione, con percorsi spesso non preordinati, attività di auto-formazione nel tempo libero, impegno nella costruzione di un portfolio e partecipazione ad eventi per fare network. I problemi da affrontare e le caratteristiche del lavoro sono diverse anche rispetto alla scelta di fare impresa, di lavorare come autonomi o come dipendenti per un piccolo o medio-grande studio. Nei primi due casi è necessario sviluppare anche competenze imprenditoriali. Nel contesto italiano, costellato di realtà ‘indipendenti’ e di dimensioni limitate, spesso i lavoratori si formano per acquisire capacità eterogenee e i ruoli possono così divenire interscambiabili.

Come emerge dal rapporto IR-CREA Strategic but vulnerable (Bellini et al. 2018), i lavoratori del gaming in Italia condividono con altri settori creativi condizioni di lavoro sfavorevoli, come l’insicurezza occupazionale, bassi livelli di reddito e prolungati orari di lavoro come il crunch time, in cui spesso tempo di lavoro e tempo libero si sovrappongono. Tali osservazioni vengono riportate anche da Ozimek (2018) circa il lavoro nello sviluppo di videogames in Polonia, che le descrive attraverso il modello del pleasure-pain axis (McRobbie 2016), ovvero l’esperienza profonda e cronica di insicurezza che provano molti giovani alla ricerca del lavoro che possa auto-realizzarli, accettando percorsi di carriera incerti e precari, in un contesto dove il lavoro è per eccellenza a progetto. Una larga fetta di chi lavora nel settore in Italia, similmente all’estero, descrive il proprio percorso professionale come il raggiungimento di un sogno presente sin dall’infanzia, a cui alcuni studiosi fanno riferimento come “work of love” (Gill e Pratt 2008), “playbour” (Kücklich 2005) o “passionate work” (McRobbie 2004), contraddistinto da forti livelli di autonomia, di creatività e di senso di appartenenza ad una comunità. In questo senso, le motivazioni intrinseche degli occupati compensano gli aspetti più strumentali del lavoro, come la retribuzione, la sicurezza e gli orari di lavoro talvolta sfavorevoli rispetto alle forti competenze possedute dai lavoratori. La pervasività della passione e dell’autentico interesse verso i videogiochi sono talmente diffusi nell’industria a tal punto da divenire elementi distintivi del lavoro e rappresentare una sorta di requisito tacito per coloro che desiderano entrare in questo mondo (Sthyre 2020).

Riuscire a fare carriera nel senso tradizionale del termine non è un concetto che ben si allinea con la realtà di questo settore, dove il lavoro è di squadra e per avanzare professionalmente viene spesso consigliato lo spostamento all’estero e/o la partecipazione alla realizzazione di videogames AAA. Se per alcuni il sogno nel cassetto è quello di partecipare a progetti prestigiosi, per molti altri lavoratori il desiderio è di aprire un proprio studio e lavorare al proprio gioco. Anche in questo senso la passione diventa una dimensione fondamentale in un contesto produttivo dove il rischio di non avere successo è sempre presente. A questo proposito, molti lavoratori preferiscono impegnarsi in piccole produzioni indipendenti per non svolgere mansioni ripetitive e talvolta alienanti, e alcune figure professionali, in primis nell’ambito della programmazione, rinunciano a occupazioni in altri tipi di industrie che presentano condizioni di lavoro e retribuzioni superiori pur di realizzare le proprie aspirazioni nel mondo dei videogiochi.

“Fai un lavoro che ti piace e non lavorerai nemmeno un giorno della tua vita” è una massima di Confucio spesso utilizzato dai lavoratori creativi ma che si scontra con la realtà di un tipo di industria che richiede una enorme mole di risorse, in termini economici, di tempo, di organizzazione e di impegno.

Questo contributo ha cercato di riassumere alcuni degli aspetti che caratterizzano il lavoro creativo e, in particolare, nello sviluppo di videogiochi, seppur parzialmente e in modo non esaustivo, e come la sociologia si stia approcciando all’analisi di questo nuove settore. Da un lato ne vengono indagati gli aspetti positivi, in termini di industria in crescita, di modelli organizzativi virtuosi e di forte investimento e attaccamento al lavoro a livello individuale; dall’altro lato sono sotto osservazione i fattori negativi, in particolare la crescente competizione su scala globale e le condizioni di vulnerabilità dei lavoratori. Ulteriori ricerche e prospettive teoriche per interpretare i cambiamenti in corso sono necessarie, anche alla luce dell’esponenziale sviluppo di tale settore, delle trasformazioni organizzative che stanno investendo il mondo del lavoro e del ruolo che nell’epoca contemporanea occupa l’attività lavorativa all’interno della vita del singolo. In questi termini, i lavoratori del gaming rappresentano un caso esemplare di studio e di ricerca, in cui la passione non riguarda solo il lavoro ma il prodotto del proprio lavoro, dando origine a spazi di autentica autorealizzazione e contemporaneamente a rischi di (auto)sfruttamento; in cui l’autonomia, la creatività, la tecnologia e le pressioni commerciali sono in costante conflitto; in cui il tempo di lavoro e il tempo libero hanno dei confini sfumati e le potenzialità del medium utilizzato sono in continua ed esponenziale crescita, come dimostrano sia gli avanzamenti tecnologici e i sempre maggiori campi in cui il videogioco è utilizzato, sia il sempre maggiore riconoscimento sociale e istituzionale che identifica i videogames come forma d’arte (Viola 2018).

Giulia Cavallini
Dottoranda, Università degli Studi di Firenze/Università degli Studi di Torino
Bibliografia
  • Antcliff, V., Saundry, R., Stuart, M. (2007) Networks and Social Capital in the UK Television Industry: The Weakness of Weak Ties, in «Human Relations», 60(2), pp.371-393.
  • Ashton, D. (2015) Creative work careers: pathways and portfolios for the creative economy, in «Journal of Education and Work», 28(4), pp.388-406.
  • Balla, G. (2020) Produzione, finanziamento e distribuzione del videogioco in Italia: Lo stato dell’industria nel quinquennio 2015-2019, in M. B. Carbone e R. Fassone (a cura di) Il videogioco in Italia: Storie, rappresentazioni, contesti, Mimesis, Milano, pp.219-234.
  • Banfi, D., Bologna, S. (2011) Vita da freelance: i lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano.
  • Banks, M. (2017) Creative justice: Cultural industries, work and inequality, Pickering & Chatto Publishers, London.
  • Barca, F., Salvador, M. (2012) Il lento cammino dell’industria videoludica italiana, in «Economia della Cultura», 22(2), pp.179-192.
  • Bellini, A., Burroni, L., Dorigatti, L. (2018) Industrial Relations and Creative Workers – Country Report: Italy, IR-CREA Project.
  • Bergvall Kåreborn, B., Howcroft, D. (2013) The Future’s Bright, the Future’s Mobile’: A Study of Apple and Google Mobile Application Developers, in «Work, Employment and Society», 27(6), pp.964-981.
  • Bulut, E. (2015) Glamor above, precarity below: immaterial labour in the video game industry. Critical Studies in «Media Communication», 32(3), pp.193-207.
  • Carbone, M. B., Fassone, R. (Eds.) (2020) Il videogioco in Italia: Storie, rappresentazioni, contesti, Mimesis, Milano.
  • Commissione Europea (Aprile 2010) Libro Verde: le industrie culturali e creative, un potenziale da sfruttare.
  • Commonwealth of Australia (1994) Creative Nation: Commonwealth Cultural Policy, National Capital Printing, Canberra.
  • Conor, B., Gill, R., Taylor, S. (2015) Gender and creative labour, Wiley-Blackwell, London.
  • Consalvo, M. (2008) Crunched by passion: women game developers and the workplace challenges, in B.Y. Kafai, C. Heeter, J. Denner, Y.J. Sun (eds.) Beyond Barbie and Mortal Kombat. New Perspectives on Gender and Gaming, MIT Press, Cambridge, MA, pp.177-191.
  • DCMS (1998) Creative Industries Mapping Document, London.
  • Florida, R. (2002) The rise of the creative class: And how it’s transforming work, leisure, community and everyday life, Basic Books New York, NY.
  • Gill, R., Pratt, A. (2008) In the Social Factory? Immaterial Labour, Precariousness and Cultural Work, in «Theory, Culture & Society», 25(7-8), pp.1-30.
  • Hardt, M., Negri, A. (2000) Empire, Harvard University Press, Cambridge, MA.
  • Hesmondhalgh, D., Baker, S. (2008) Creative Work and Emotional Labour in the Television Industry, in «Theory, Culture & Society», 25(7-8), pp.97-118.
  • Hesmondhalgh, D., Baker, S. (2011) Creative labour: media work in three cultural industries, Routledge, NY.
  • IIDEA, IDG Consulting (2021) Censimento Game Developer Italiani 2021.
  • Johnson, R.S. (2013) Toward greater production diversity: examining social boundaries at a video game studio, in «Games and Culture», 8(3), pp.136-160.
  • Kücklich, J. (2005) Precarious Playbour: Modders and the Digital Games Industry, in «Fibreculture», 5.
  • Lazzeretti, L., Capone, F., Seçilmis¸ I.E. (2016) In search of a Mediterranean creativity. Cultural and creative industries in Italy, Spain and Turkey, in «European Planning Studies», 24(3), pp.568-588.
  • Lipkin, N. (2013) Examining indie’s independence: the meaning of ‘indie’ games, the politics of production, and mainstream co-optation, in «Loading…The Journal of the Canadian Game Studies Association», 7(11), pp.8-24.
  • Martin, C., Deuze, M. (2009) The independent production of culture: a digital games case study, in «Games and Culture», 4(3), 276-295.
  • McRobbie, A. (1998) British Fashion Design: Rag Trade or Image Industry?, Routledge, London.
  • McRobbie, A. (2004) Making a Living in London’s Small-scale Creative Sector, in D. Power e A.J. Scott (eds.) Cultural Industries and the Production of Culture, Routledge, London-New York, pp.130-144.
  • McRobbie, A. (2016) Be Creative, Polity Press, Cambridge.
  • Menger, P.M. (2015) The Market for Creative Labour, in C. Jones, M. Lorenzen e J. Sapsed (eds.) The Oxford Handbook of Creative Industries, Oxford University Press, Oxford, pp.148-170.
  • Murgia, A., Teli, M., Zambelli, L. (2014) Ai confini dei libri, tra passione e lavoro. Mettersi in rete per resistere alla precarietà, in «Sociologia del lavoro», 133, pp.71-83.
  • Neff, G., Wissinger, E., Zukin, S. (2005) Entrepreneurial Labor among Cultural Producers: “Cool” Jobs in “Hot” Industries, in «Social Semiotics», 15(3), pp.307–334.
  • O’Brien, D., Laurison D., Miles, A., Friedman, S. (2016) Are the creative industries meritocratic? An analysis of the 2014 British Labour Force Survey, in «Cultural Trends», 25(2), pp.116–131.
  • O’Donnell, C. (2014) Developer’s Dilemma. The Secret World of Videogame Creators, Cambridge, The MIT Press, MA.
  • OECD (2018) Cultural & Creative Industries (CCIs): Fulfilling the Potential.
  • Ozimek. A. M. (2018) Videogame Work in Poland. Investigating Creative Labour in a Post–socialist Cultural Industry, tesi dottorale University of Leeds.
  • Prescott, J., Bogg, J. (2013) The gendered identity of women in the games industry, in «Eludamos. Journal of Computer Game Culture», 7(1), pp.55-67.
  • Ross, A. (2003) No-Collar: The Humane Workplace and Its Hidden Costs, Basic Books, New York.
  • Ruffino, P. (2020) I Videogiochi Indipendenti in Italia: Significati, Narrative, Reti, in M. B. Carbone e R. Fassone (a cura di) Il videogioco in Italia: Storie, rappresentazioni, contesti, Mimesis, Milano, pp.235-250.
  • Scott, A.J. (2006) Entrepreneurship, Innovation and Industrial Development: Geography and the Creative Field Revisited, in «Small Business Economics», 26, pp.1-24.
  • Srauy, S. (2017) Professional norms and race in the North American video game industry, in «Games and Culture», 0(0), pp.1-20.
  • Styhre, A. (2020) Indie Video Game Development Work: Innovation in the Creative Economy, Springer Nature.
  • Taylor, S., Littleton, K. (2012) Contemporary Identities of Creativity and Creative Work, Ashgate, Farnham.
  • Thompson, P., Parker, R., Cox, S. (2016) Interrogating Creative Theory and Creative Work: Inside the Games Studio, in «Sociology», 50(2), pp.316-332.
  • Towse, R. (2010) Creativity, Copyright and the Creative Industries Paradigm, in «Kyklos», 63(3), pp.461-478.
  • UNESCO (2018) Global Report 2018. Reshaping cultural policies.
  • Viola, F. (2018) I videogiochi come espressione sociale ed artistica del XXI secolo, in «Economia della Cultura», 28(3), pp.291-300.
  • Virno, P. (2004) A Grammar of the multitude, Semiotext(e), New York – Los Angeles.
  • Wolf, M.J.P. (2015) Video Games Around the World, The MIT Press, Cambridge, MA.