Per la sociologia dell’immaginario (ma non solo) la contemporaneità è accertata come una fase storica problematica e di transizione, non più definibile con le classiche tassonomie che hanno caratterizzato lo studio delle società fin dai suoi albori¹. La caduta delle grandi narrazioni descritta da Jean François Lyotard (2002) insieme alle grandi cesure del progresso (Alberto Abruzzese, 2011) hanno lasciato un grande vuoto nel panorama contemporaneo, facendo ritornare gli individui a una condizione di solitudine e di responsabilità del proprio vissuto, molto similmente a quanto avvenuto con la scoperta della coscienza. Nonostante ciò, l’esigenza antropologica di ancoraggio e di ricerca del senso nell’alterità, ha portato gli individui a trovare delle alternative funzionali che fossero in grado di sostituirsi alle forme istituzionali del passato. Ciò che si è riscontrato oggi è che, nel contesto attuale costituito da ambienti fluidi e mutevoli, nuove forme identitarie, comunitarie e associative sono nate intorno ai prodotti dell’industria culturale e vivono in compresenza al fianco di quelle passate. Basti solo pensare agli e-sport e le community di fan che si creano. Questa fluidità, questa mutevolezza dei nuovi ambienti in cui abitano i soggetti e i media deriva dalla loro natura digitale e virtuale, la cui matrice matematica permette una straordinaria riconfigurazione e ricombinazione delle realtà e delle relazioni che in esse avvengono.

L’uomo, comprendendo la velocità, la superficialità, la nevrosi della contemporaneità, accetta da un lato questa sua natura, ma dall’altro ricerca forme nuove di identità e comunitarismo, basate principalmente sul consumo delle immagini, intese non solo come figure statiche o dinamiche, ma veri agenti ricettori e promotori di storie e fascinazioni. Sulla base di questi presupposti si è voluto proporre una riflessione sulla concezione sociologica di gioco, il ruolo e le caratteristiche che esso possiede prendendo in considerazione la reciproca evoluzione e influenza che l’immaginario Giapponese ha avuto in occidente – inteso in questa accezione con un’ottica globalista critica, cioè l’idea di un occidente non chiuso, non atavico, ma che contempli sincretismo e atteggiamento exotopico – attraverso le nuove forme di mutazione identitaria postumana e uno dei suoi prodotti mediali assunto a vero fenomeno transnazionale: i pokémon.

 

¹ Si fa riferimento al primo uso del termine Sociologia nel 1824 da parte di Auguste Comte per indicare una disciplina scientifica che concentra il proprio ambito di indagine sui fenomeni e sulla struttura delle relazioni sociali (Raymond, 1972).

² Pierre Lévy fa riferimento al termine latino-medioevale Virtualis, aggettivo derivato dal termine virtus, traducibile come “forza” o “potenza”, dunque anche come “potenziale” (Lévy, 1997).

Il gioco è un’attività che per lungo tempo nell’immaginario collettivo è stata relegata a una funzione secondaria, relativa al di-vertimento, il volgere lo sguardo altrove, altresì la fuga dalla realtà, perpetuata nelle società tradizionali dalla differenziazione tra homo faber e homo ludens. Seguendo l’impostazione di diversi autori come Huizinga, Caillois, Koster e Rifkin, è possibile ritenere il gioco come un’attività pre-sociale, una pratica vitale che consente i processi di socializzazione, nonché un criterio di governance non solo delle proprie azioni ma anche dei contesti nei quali l’uomo va a inserirsi. Ponendosi dunque in tal senso, il gioco può essere analizzato in tutte le sue componenti: prima di tutto la sua capacità di astrazione e simulazione del reale, che consente di oggettivare cose e situazioni, le possibilità comunicative derivanti dai momenti ludici nei quali si impersonano ruoli e si realizzano scenari possibili, e le emozioni che vengono scoperte ed enfatizzate in tali contesti come la competitività e l’eustress descritto da Jane McGonigal (2011). Nel passaggio evolutivo da forme classiche di gioco a forme ibride e digitali di esperienze ludiche che vedono sia una de-territorializzazione dei luoghi che una smaterializzazione del corpo biologico, si sottolinea il mutamento che avviene nell’uomo: un individuo di carne che osservando i nuovi contesti di rete vede nascere in lui l’esigenza di decodificarsi e ristrutturarsi digitalmente per poter abitare i nuovi luoghi, i nuovi videomondi (Alessio Ceccherelli, 2008) che propongono nuove e potenzialmente infinite possibilità di essere e di diventare. Si parla dunque di social presence, e di tutte quelle azioni, sensazioni, comportamenti che nei contesti digitali vengono a costituirsi, nonché all’assottigliamento – se non la scomparsa – dei classici confini tra reale e virtuale. I videogames, nonostante l’etimologia, non sono semplicemente giochi che si effettuano attraverso uno schermo, ma vere e proprie forme narrative ed esperienziali memorabili che spiegano e consentono forme nuove di rappresentazione. Essi, data la loro natura altamente ri-mediativa (Bolter J.D., Grusin R, 2003), posseggono capacità e caratteristiche ibride, risultando essere la commistione di più entità mediali quali cinema, radio, tv e persino fumetto. I contributi di autori come McLuhan, Colombo e Manovich portano alla chiarificazione dell’idea del videogioco come possibile medium sintetico, che trova nelle idee di protesi mentale cognitiva e di sensorialità terziaria di Derrick de Kerckhove (2011) un’ulteriore conferma.

I videogiochi si presentano nello scenario storico-sociale in maniera quasi sommessa, ma la loro importanza alla luce dei riferimenti scientifici di cui sopra, viene giustamente rivalutata. Considerando una ipotetica linea temporale dell’evoluzione dei media che parte dal corpo dell’ominide al pc, il videogioco si colloca alla fine, oltre quest’ultimo, sia come sua componente particolare sia come inevitabile evoluzione, in quanto esso risulta una anomalia imprevista. Emblema della società dell’immagine, il videogioco decostruisce i vecchi media che lo hanno preceduto per poi ricomporsi in maniera sincretica attraverso un processo di riqualificazione semantica che avviene attraverso la matematizzazione, o per meglio dire, la digitalizzazione degli specifici mediali. Attraverso dunque il linguaggio binario dei computer è possibile riproporre e migliorare parte delle funzioni dei precedenti media che vengono “ri-mediate” a favore di un medium che le sintetizza in maniera più consona al tempo che esso stesso abita. La contemporaneità, attraversata da impulsi informativi rapidi e dediti alla semplificazione e alla facilità di trasmissione e comunicazione, necessita di sistemi altrettanto simili che sintetizzano al meglio quante più funzioni comunicative possibili e i videogiochi si collocano in una posizione privilegiata proprio in tal senso.

La cultura e l’immaginario Giapponese vengono percepiti molto distanti da noi tuttavia si rivela invece un idealtipo post-modernista da cui iniziare delle interessanti riflessioni. Non a caso, interessarsi del Giappone e della sua cultura oggi risulta essere un rigoroso passaggio conoscitivo per la comprensione dei fenomeni contemporanei. Il paese del sol levante si presenta infatti come emblema dell’anacronismo: un paesaggio che vede natura e metropoli fondersi e coesistere, un sistema altamente tradizionalista che contempla un processo di inglobamento e arricchimento culturale continuo, altresì un perfetto scenario di ibridismo e mutevolezza, la cui storia sociale viene a costituirsi tramite continue influenze esterne e rielaborazioni interne, a partire dai media visuali. Tutti i media, dalla scrittura, ai fumetti, dal teatro fino ai videogames, sono concepiti come media visuali e le loro caratteristiche peculiari permettono di definire la nascita della generazione visuale attuale abituata a vivere e comunicare principalmente attraverso le immagini, proprio nella shikaku sedai nipponica. Grazie alla presentazione degli specifici mediali quali a esempio la pantomima nel teatro e l’estetica nella calligrafia shodō, si arriva a supporre che i processi di ri-mediazione sono stati così pregnanti e importanti per la strutturazione dell’immaginario nipponico che hanno permesso la costituzione di una specifica cultura pop prima e di sottoculture giovanili che hanno utilizzato come elementi identificatori proprio i suddetti media poi. La J-pop, la cultura pop giapponese divenuta tale per effetti di ibridismo con le culture occidentali e semplificazione concettuale (mukokuseki) si è strutturata, nel corso del tempo, attraverso due filoni dell’immaginario. Il primo riguarda l’accettazione dell’ibrido chimerico come elemento della realtà intelligibile, una concezione contraria al principio diadico occidentale di res cogitans e res extensa, concretizzato nella figura del cyborg, e il secondo, risultato di una particolare equazione, dalla crasi di due sottoculture giovanili: la prima, sintetizzabile nella categoria degli otaku, si sviluppa attraverso la decomposizione del fattore ludico e la ricerca animalesca di informazioni (Hiroki Azuma, 2010) per fini collezionistici e di contemplazione, e nella categoria del kawaii, una sottocultura che vede nell’infantilità relazionale e nei feticci colorati e bambineschi forme nuove di rappresentazione.

Avendo ben presente queste categorie dell’immaginario e mettendole in relazione con un fattore di consumo culturale comune a entrambe quali sono i videogiochi, è possibile concepire una mutazione identitaria particolare: il cyborg del codice proposto da Antonio Caronia diverrebbe cyborg videoludico, un soggetto che agisce attraverso le forme ludico-narrative la cui parte organica non scompare, anzi, si presenta nei contesti digitali non più come carne in senso stretto, ma come nozione estesa di corpo che contempla l’emotività. Il corpo dematerializzato è infatti un corpo emotivo costituito non da un involucro con dei confini, tantomeno un costrutto di informazioni codificate, ma dalle potenziali azioni e reazioni ad accadimenti collettivi che contemplino una qualche sorta di coinvolgimento sentimentale. Per un cyborg siffatto tuttavia il concetto di infantilità propugnato dalla cultura kawaii va modificandosi: non si farebbe infatti più riferimento a una tacita rinuncia del mondo adulto e delle annesse responsabilità, ma riguarderebbe una ricerca, una semplificazione e una ristrutturazione di legami sinceri, puri e privi di quella malizia e diffidenza caratteristici della contemporaneità. Infantilità dunque si presenterebbe come ritorno a una comunicazione autentica, che consenta «di gettare un ponte sull’abisso» (John Durham Peters, 2005).

La globalizzazione consente al Giappone e al resto dell’oriente di influenzare gli immaginari altrui, ma essi vengono a loro volta influenzati. Il prodotto culturale con il quale questo processo sembra essere palese è Pokémon. Il brand infatti attinge al potenziale simbolico dell’ibrido e del mostro per avvicinare realtà diverse, con il risultato di ribadirne i confini e le differenze. Detto in altri termini, si parla di sfruttare in maniera più generale la figura e l’etimologia del mostro (Dal latino monstrum, prodigio ma anche monstrare, mettere in mostra) e renderlo un principio trasformativo di una mutazione globale in atto resa possibile da un riconoscimento critico di sé stessi e delle altrui realtà culturali. La fascinazione per i pokémon passa prima di tutto attraverso la loro estetica. Per capire lo stile grafico dei pokémon bisogna tenere a mente l’evoluzione dello stile rappresentativo dei fumetti giapponesi per bambini, sintetizzabile nel concetto già trattato di kawaii. Dal punto di vista grafico i pokémon obbediscono alla cosiddetta regola del pet, del cucciolo carino e desideroso di coccole, una tendenza nata negli anni ottanta ma che ha avuto particolare riscontro in termini di successo commerciale transnazionale nella sua forma digitale a partire dalla seconda metà degli anni novanta con giochi come Tamagotchi. I pokémon appaiono per la maggior parte dei casi come animaletti impacciati e pingui, dalle movenze dolci nella loro maldestrezza, obbedendo a canoni pseudo disneyani ai limiti del perbenismo. Essi sono creature particolari, dei veri e propri conglomerati sincretici di elementi animali, vegetali e minerali, mescolati con grande fantasia secondo regole malleabili di tassonomia pseudo linneiana (Allison, 2006). Sono dei mutaforma che cambiano – nella maggior parte dei casi – attraverso diversi stadi evolutivi, ponendosi di fatto come delle chimere, delle paure infantilizzate e ri-mediate rese docili per la loro addomesticazione il cui utilizzo propositivo li trasforma in veri e propri strumenti anestetici per la psiche. Essi, in pratica, raccolgono l’eredità dei super-robot nel loro essere mostruosi, sia pure in modo kawaii e nel loro essere trasformabili (Lipperini, 2000). Il concetto di mutazione che permea molti personaggi giapponesi è fondamentale in Pokémon e si presenta come nuova possibilità del divenire: rappresentano infatti la spia di una condizione diversa dell’essere umano la cui identità deve necessariamente perdere in rigidità e divenire acquatica, disancorata. L’evoluzione attraverso i vari stadi è ricca di riferimenti al mondo dell’infanzia e alla fluidità del percorso degli individui in fase di formazione, nonché alle fasi e ai riti di passaggio che i giovani, in età arcaica prima e nei contesti digitali poi, svolgono (Arnold Van Gennep, 2002). Si pensi a esempio, in qualsiasi prodotto videoludico principale del brand in questione, alla musichetta che accompagna lo stadio evolutivo: il normale corso della narrazione viene interrotto, permettendo di fatto l’entrata del giocatore in una zona a-temporale dove inizia la contemplazione della creatura-feticcio e dove è possibile consentire, in modo non dissimile alla figura del Pan di J.M. Barry, la mancata evoluzione, la mancata crescita della creatura. Il cambio di sprite (o silhouette che dir si voglia) che preannuncia la maturazione del mostriciattolo viene innalzato a momento rituale sottolineandone l’importanza: ciò che è consentito ora alla creatura è acquisire maggiore forza, capacità e abilità. La maldestrezza costituisce un elemento esistenziale con cui molti giovanisono costretti a convivere, ovvero la sensazione di inadeguatezza al mondo.

L’estensione delle fasi dell’incertezza giovanile nella contemporaneità ha portato questi ultimi a voler ricercare forme a loro simili, altrettanto incerte, con cui sperimentare una sorta di controllo della realtà: l’acquisizione dell’esperienza nelle lotte di pokémon figura esattamente questo, ossia la possibilità giocosa, attraverso l’immunizzazione (Aiello, 2005) dell’incontro casuale di altrui mostri e situazioni, di guadagnare informazioni sul mondo e costruire una percezione quanto più solida dello stesso attraverso la crescita della propria identità poliedrica, concretizzata nei diversi pokémon che è possibile portare con sé nel corso dell’avventura videoludica. All’interno di questa narrazione inoltre, è possibile notare come siano presenti anche creature tutt’altro che docili e gentili, anzi, spesso ci si trova faccia a faccia con creature mitiche, mistiche, ancestrali, che hanno dato origine o il loro contributo addirittura al cosmo pokémon stesso. Nei casi di Genesect e Mewtwo a esempio, si ha a che fare anche con aberrazioni frutto di profonde mutazioni genetiche. La presenza di queste creature che non necessitano di evoluzione tantomeno di pre-evoluzione è sintomatico di qualcosa di diverso rispetto a quanto detto prima. Ognuna di esse rappresenta un qualcosa,  è legata a qualche fenomeno: il tempo, lo spazio, la creazione dei continenti e dei mari, la creazione delle emozioni umane, la rinascita, etc. Sono altresì figure semi-perfette, dalla imponente costituzione, che si pongono come  gli dei pagani della nostra antichità, ovverosia sistemi incarnati che spiegano gli accadimenti del mondo, delle vere e proprie figurazioni che si accollano una maggior responsabilità di rappresentazione (Berger, Luckmann, 1969). Eccezion fatta per i primi titoli della serie, sulle copertine di gioco troneggiano i leggendari principali, coloro che smuovono la trama in maniera significativa e mostrano al giocatore una realtà narrativa ben precisa. I creatori dei giochi sfruttano il fascino che queste creature possono trasmettere per veicolare messaggi e per mettere sul tavolo della discussione alcune tematiche: nel corso degli anni infatti si è discusso implicitamente di questioni come il maltrattamento degli animali, la morte, le associazioni criminali, l’inquinamento, il gioco d’azzardo, le armi di distruzione di massa e altri temi riguardanti l’ambiente. Ciò che risulta interessante notare è che queste creature sono state inserite in un contesto immaginario, intenzionalmente aulico, e concepite in simbiosi con la natura, che viene in qualche modo reinventata e ri-narrata come un ambiente incontaminato (Bernabei, 2012) dove uomini e pokémon vivono in pace, un mondo riprodotto ideale, eco sia di quel desiderio nipponico di tranquillità dalla frenesia dell’ipermodernità sia della filosofia orientale dedita alla cura del sé e della natura (Raveri, 2014). Si tratterebbe in altri termini della concretizzazione della già citata infantilità riveduta, intesa come ricerca di relazioni pure, che si ripercuote sui pokémon e in particolare sugli avatar protagonisti. Tutto ciò è desumibile in maniera più palese nella serie animata dove i codici televisivi consentono di veicolare al meglio determinati messaggi (Luciano Arcuri, 2008). Come i loro corrispettivi umani preferenziali, i pokémon del cartone animato risultano essere, dal punto di vista comportamentale, veri e propri bambini capaci di atti d’amore, ma anche di capricci e rivalità: sono progettati, caratterialmente parlando, per ispirare complicità ed empatia nei loro spettatori elettivi. Il loro linguaggio è solo apparentemente elementare, non è semplice lallazione: anche se ripetono costantemente il proprio nome per intero o spezzettato, tale reiterazione palilalica avviene in modi diversi a seconda della situazione in cui il personaggio si trova di volta in volta (esempio: quando è curioso «Pika? Pikachuu…» e quando è triste solo «chuu»). Questa ricorrenza linguistica altro non è che la trasposizione pokémoniana della già rilevata usanza di storpiare i nomi e i termini in direzione bambinesca tipica giapponese.

La ripetizione insistita, da parte di un pokémon di un singolo suono, ma in occasioni e con accenti e toni differenti, sposta l’attenzione dal contenuto verbale di una comunicazione a quello emotivo: pedagogicamente parlando, per i bambini risulta decisamente più semplice comprendere messaggi basati sulla comunicazione di emozioni e stati d’animo piuttosto che comprendere messaggi linguistici articolati (Pellitteri, 2002). Ai bambini infatti piacciono i pokémon perché sono come loro, ma non sono i primi a imitare i secondi, bensì il contrario. Ciò che i pokémon fanno è quello che i bimbi di tutto il mondo compiono per concepirsi in una determinata realtà: si nominano, si affermano, crescendo e acquisendo competenze e saperi con un’operazione di reinvenzione ludica del reale molto più raffinata di come avviene per i prodotti destinati agli adulti (Lipperini, 2008). Questo ha garantito una scelta facile da parte dell’azienda per scegliere il target iniziale del suo prodotto mediale. Difatti, nel tentativo di (ri)evocare un tipo di comunicazione più pura, si è spianata la strada verso il successo di queste creature mutanti.

L’identificazione mostruosa, inoltrata nei contesti digitali, nelle pratiche (video)ludiche e nelle comunità di fan, potrebbe risultare come una buona figurazione globale del soggetto contemporaneo non soltanto perché coinvolge il passaggio dai vecchi ai nuovi media, ma investe anche il rapporto produttori/consumatori, generando nuove intersezioni e relazioni. In altre parole, i nuovi mostri sono configurati all’interno di una galassia transmediale di una cultura globale convergente che tende sempre più a concretizzarsi in forme cognitivamente più esperibili per l’abitante della contemporaneità, ossia con l’uso e la fruizione dei prodotti videoludici.

Il Giappone è un luogo con una cultura particolare, fascinoso e ricco di accadimenti, storie, che garantiscono interessanti argomentazioni e spunti di riflessione. Secondo Amitrano infatti,

Il Giappone non è solo il paese delle distopie ma quello dove l’immaginazione pop ha introdotto un tono lieve e giocoso, antidoto all’impegno totalizzante a cui la popolazione sembrava votata. […] A conferire oggi al Giappone un ruolo unico nel mondo globalizzato non sono il prestigio politico o il successo dell’economia, ma l’aver realizzato attraverso la cultura (e le subculture che la nutrono) la possibilità di esprimere in contemporanea un’ampia varietà di emozioni, atmosfere, modi di essere con una forza creativa e comunicativa che oggi nessun altro paese possiede. […] In Giappone si sperimenta di continuo una rappresentazione ibrida e polimorfa che mostra ogni cosa, il suo opposto, e un ampio raggio di gradazioni intermedie. Tutto è on display: le paure più recondite e lo stupore infantile, la perversione sessuale e la voglia di innocenza, l’incubo e il sogno a occhi aperti, la distopia e l’utopia, la realtà, l’irrealtà (pgg. 125-127).

Partendo da qui, da questo paese ai limiti del paradossale e al suo processo di transnazionalizzazione dell’immaginario, è possibile definire la cultura e l’immaginario globali attuali. Attraverso l’uso preponderante delle immagini e la capacità di elaborarle creativamente anche all’interno di relazioni comunitarie che prima non si supponevano essere influenzabili da questo fattore visuale, si potrebbe formulare un’idea sul nostro tempo, ossia il superamento della società alfabetica a favore di una più prettamente visuale, che contempli e ri-medi tutte le specificità delle culture precedenti (Walter Ong, 1986), esattamente come i media digitali (videoludici e non) che vivono in essa: la shin shikaku shakai della shin shikaku sedai, ossia la nuova società dell’immagine vissuta dalla nuova generazione della visualità. Se è vero che il videogame può essere concepito come «una pratica mediatica che nasce nell’ambito del loisir ma che permea ogni contesto» (Chirchiano, 2017) allora la scelta particolare dei pokémon come figurazione nazionale e transnazionale si spiega: essi si presentano come la sintesi di tutti gli aspetti mediali della contemporaneità, nonché del grado di pervasività massimo raggiunto dall’industria culturale nei processi di identificazione collettivi. Essi sono figurazioni commerciali onnipresenti, elementi narrativi che riescono a creare simpatia e affezione, a porsi come alterità riflessa allo specchio (Brancato, 2014), gli unheimliches che abbiamo sempre evitato di accettare ma che si presentano e rendono dicibili con un aspetto più dolce, più kawaii. Sono codici matematici e codificatori di realtà utopiche, agenti mutageni e creature mutanti, figurazioni colorate e personalità colorite, entità mostruose e identità mostrate, insomma, i pokémon parrebbero essere il simbolo del nostro essere mostruosi in una società mostruosa.

Francesco D’Ambrosio
Studente del Master interuniversitario di II Livello in Sociologia: teoria, metodologia e ricerca, Università Roma Tre
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